Pochi autori sono riusciti a ispirare artisti del calibro di Giotto, Botticelli, Raffaello e Michelangelo quanto Dante Alighieri (1265-1321), noto ancora oggi in tutto il mondo per la sua Divina Commedia. Uomo di prosa e di poesia, Dante fu costretto ad abbandonare Firenze, che gli diede i natali, per motivi politici. Ciononostante la città ancora conserva molte tracce della sua indimenticata fama. Come moderni Virgilio, ti guidiamo tra le sale delle Gallerie degli Uffizi alla scoperta di alcune delle opere più suggestive legate al Sommo Poeta e alle sue parole.
Dante, un uomo del suo tempo
Nonostante sia vissuto tra Due e Trecento, conosciamo molti avvenimenti della sua vita grazie a numerose testimonianze scritte – che siano sue o di autori coevi o posteriori – ma anche attraverso le immagini di artisti di varie epoche divenute parte del patrimonio iconografico collettivo.
Il ritratto di Dante
Chiunque di noi oggi saprebbe dire quale aspetto avesse Dante: volto imberbe, naso aquilino, cuffia e tunica rosse, sovente la corona d’alloro. Un’effige fissata per la prima volta da Giotto (o dalla sua scuola) sulle pareti del Bargello, la cui riscoperta – nel 1840 – convinse i fiorentini a trasformare l’antico palazzo nell’attuale Museo Nazionale.
L’immagine di Dante, confermata da descrizioni letterarie, viene dunque fissata diventando così un tema ricorrente nella storia dell’arte. Tra le tante rappresentazioni spiccano gli affreschi di Luca Signorelli (1499-1504) a San Brizio (Orvieto), quelli delle Stanze di Raffaello (1508-1524) ai Musei Vaticani e, ovviamente, quelli conservati agli Uffizi.

Tra gli altri, in quest’ultimo è custodita una delle più antiche e celebri rappresentazioni del poeta: il ritratto realizzato da Andrea del Castagno (1448-1449, Galleria delle Statue e delle Pitture) per l’antica villa Carducci-Pandolfini (nei pressi di Firenze). L’artista lo rappresenta a figura intera, mentre sorregge un libro semiaperto e rivolge un gesto solenne al suo vicino, uscendo – con la mano e il piede destro – dalla cornice classicheggiante nella quale è inserito. Andrea del Castagno costruisce infatti un impianto dal forte carattere illusionistico per aumentare la monumentalità delle figure ritratte. Insieme a Dante, il ciclo di affreschi prelevato dalla villa comprendeva anche i fiorentini Boccaccio e Petrarca, tre condottieri e tre donne illustri. Soggetti esemplari, scelti per onorare le virtù civiche e l’eccellenza letteraria locale. Dante, identificato anche dall’iscrizione sottostante, presenta qui i tratti distintivi citati più sopra: la sopravveste rossa degli accademici, la cuffia foderata di pelliccia, il volto segnato da rughe, il naso pronunciato, l’espressione di pacata saggezza.

La Divina Commedia in pittura e scultura
Non solo la sua iconica fisionomia ma anche la sua opera ha dato luogo a una lunga e felice tradizione artistica: pittori e scultori, per secoli, si sono ispirati alla sua Divina Commedia, permettendoci oggi di godere di un’articolata eredità di interpretazioni.
Una preghiera immortalata in figura
Tra loro, anche Sandro Botticelli si cimenta nella rappresentazione del poema dantesco, che illustra e che ricorda anche nella Pala di San Barnaba (1480-1482 ca.) custodita nelle Galleria delle Statue e delle Pitture degli Uffizi.
La tavola viene realizzata per l’omonima chiesa fiorentina, fondata nel 1289 per celebrare la vittoria dei guelfi nella battaglia di Campaldino (avvenuta durante la festa di San Barnaba).
In un interno scorciato e finemente decorato vediamo la Vergine col Bambino in trono attorniati da angeli e Santi. Da sinistra: Caterina d’Alessandria, Agostino, Barnaba, Giovanni (riconoscibile per gli attributi tipici del santo), Ignazio d’Antiochia e Michele.

Ma cosa collega questa scena a Dante? Uno sguardo attento rivela un’iscrizione nel dipinto: sulla base marmorea del trono si legge “Vergine madre figlia del tuo figlio”. È una citazione dell’ultimo canto della Commedia, ambientato nell’Empireo (il più alto dei cieli e sede di Dio, secondo la teologia medievale). Le parole sono pronunciate dal mistico Bernardo di Chiaravalle, che guida Dante al posto di Beatrice nella visione finale del Paradiso. Il poeta è quasi giunto al cospetto del Signore ma perché possa contemplarlo c’è bisogno dell’intercessione di Maria, alla quale Bernardo rivolge la suddetta preghiera.
Le terzine dantesche diventano così famose da entrare nelle litanie dedicate alla Vergine e, come abbiamo visto, nel repertorio artistico come supplica dei devoti alla Madonna.
Un compendio di mostri infernali
Decisamente più libera è l’interpretazione dell’opera dantesca di Filippo Napoletano. Nel suo Dante e Virgilio all’Inferno (1618-1620 ca., Galleria delle Statue e delle Pitture) l’artista esibisce infatti una moltitudine di demoni infernali, tratti da diversi passi della Commedia. Sullo sfondo di una tetra architettura in fiamme – forse la città di Dite, citata dal poeta – scorgiamo Virgilio e Dante (in basso a sinistra) che si apprestano ad attraversare un truce scenario. Le anime dei dannati si contorcono dal dolore, tormentate da creature mostruose come Arpie, Cagne infernali, Cerbero e Centauri, mentre sulla destra appare l’imbarcazione di Caronte. Tra i diavoli si distingue anche la morte scheletrica a cavallo, potente simbolo di bruttezza e orrore. L’astice gigante che vediamo in primo piano è invece una trovata originale dello stesso Napoletano: un brano di natura morta che richiama le tavole imbandite dipinte dai nordici e asseconda così il gusto per la pittura d’Oltralpe del committente dell’opera, Cosimo II de’ Medici.
La forza espressiva della tavola, che squaderna in modo inequivocabile cosa accade ai peccatori, si accorda bene allo spirito moraleggiante del periodo, segnato dai rigidi dettami della Chiesa controriformata.

Una storia tragica e misteriosa
Una delle vicende più toccanti e stimolanti per gli artisti è quella di Pia dei Tolomei. Dante la incontra nell’Antipurgatorio, dove le anime delle persone uccise e redente all’ultimo minuto attendono di essere ammesse al Purgatorio. Qui la donna si rivolge al poeta con poche parole pietose e fugaci, facendogli intendere che la sua morte sarebbe stata causata dal marito, Nello d’Inghiramo de’ Pannocchieschi. Non conosciamo i dettagli storici dell’accaduto ma secondo la versione popolare Pia sarebbe stata gettata giù dalla finestra per ordine di Nello che voleva sposare, in seconde nozze, una Aldobrandeschi. Una storia tragica che ha avuto molta fortuna, sia in arte che in letteratura.
Nel poema ottocentesco di Bartolomeo Sestini (ripreso da un’opera di Donizetti), il marito, accecato dalla gelosia e convinto dell’infedeltà di Pia, la rinchiude in un castello dove la donna si uccide per la disperazione.
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Proprio l’arrivo al castello è ciò che rappresenta Vincenzo Cabianca nel piccolo olio conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti. La tela Pia dei Tolomei condotta al Castello di Maremma (1860 ca.), è realizzata con la tecnica a blocchi di colore tipica dei Macchiaioli. Cabianca, che in quegli anni frequenta il vivace Caffè Michelangelo insieme al gruppo di artisti, predilige una pittura fatta di luce e volumi, abbandonando la tradizione accademica. Il risultato è un’immagine schietta, dove forme cromatiche essenziali descrivono l’incedere della donna sui gradini del palazzo in un’atmosfera limpida e asciutta.

Di tutt’altro genere e “temperatura” emotiva, il gruppo scultoreo realizzato solo un anno dopo da Pio Fedi, Nello con la Pia (1861, Appartamenti Reali, Palazzo Pitti), che già nel titolo richiama una dimensione più intima e familiare. Pia è intenta ad accogliere con affetto e apprensione il marito, che resta però distante e pensieroso. Una freddezza motivata forse dai sospetti e dall’insorgere dei suoi piani omicidi.
Molto apprezzata dal granduca Leopoldo II de’ Medici, l’opera è stata riprodotta più volte dal Fedi. La copia che vediamo oggi alle Gallerie degli Uffizi, oltre a essere una delle più antiche, è anche quella acquistata dal re d’Italia Vittorio Emanuele II per la sua galleria personale, durante l’Esposizione Italiana del 1861.

Ma queste sono solo alcune delle testimonianze artistiche visibili agli Uffizi della grandezza di Dante e della sua opera. Un’opera immortale, nelle parole e nei fatti.