Poche cose hanno la capacità di suscitare sentimenti contrastanti come la natura morta, specialmente quella più antica: c’è chi ne è appassionato e chi invece la considera un genere minore. Per coglierne meglio l’importanza e il fascino, ripercorriamone insieme la storia e l’evoluzione, soffermandoci in particolare sul Seicento, periodo al quale appartengono alcune delle nature morte più famose.
Alle origini della natura morta, dall’antichità al Medioevo
Come si definisce la natura morta? Volendo semplificare, possiamo dire che questo genere include tutto ciò che non è pittura di storia. Si tratta, in altri termini, di opere che non hanno una narrazione, non raffigurano gesta ed eventi umani (siano essi religiosi, mitologici o di altro tipo), ma rappresentano invece il mondo inanimato delle cose. Frutta, fiori, cibo, stoviglie, libri, strumenti musicali, utensili da lavoro: tutto può essere oggetto – e quindi anche soggetto – della natura morta.
Stando a questa spiegazione, possiamo rintracciare gli esordi di tale arte già in epoca romana e, in particolare, nelle pitture parietali e musive realizzate tra il I sec. a.C e il I sec. d.C nelle ville dell’antica Roma e negli edifici di Pompei e di Ercolano.
Ma il suo antecedente ufficiale è comunemente riconosciuto nei due Coretti affrescati da Giotto nella Cappella degli Scrovegni (1303-1304), che aprono la strada alla pittura di oggetti. Qui il Maestro toscano rappresenta due ambienti come visti da sotto in su, con una bifora e una volta a crociera dalla quale pende un’elaborata lanterna in ferro battuto, senza che vi siano soggetti umani o moventi narrativi espliciti.
Quattro e Cinquecento: gli oggetti acquistano autonomia
Già nel Quattrocento la pittura fiamminga si distingue per una spiccata predilezione per le ambientazioni realistiche. Gli episodi biblici e le vite dei santi sono spesso inscritti in luoghi domestici, caratterizzati da arredi e oggetti di uso quotidiano – carichi di significati simbolici – descritti minuziosamente dagli artisti del tempo. Un dettaglio naturalistico davvero sublime è raggiunto, ad esempio, dal famoso Trittico Portinari di Hugo van der Goes del 1477-1478, conservato alla Galleria degli Uffizi. L’opera, commissionata dal mercante fiorentino Tommaso di Folco Portinari, è costituita da una tavola centrale sulla quale si richiudono due sportelli laterali, decorati su entrambi i lati. L’interno – che veniva mostrato solo in determinati momenti liturgici, come la Quaresima – raffigura la Natività: il Bambino e la Vergine al centro, sono circondati da angeli e pastori in adorazione, mentre San Giuseppe osserva la scena in preghiera. In primissimo piano, un doppio vaso di fiori contenente gigli, iris, aquilegie e garofani, tutte varietà che richiamano le virtù della Vergine.
Ma il vero impulso all’autonomia del genere arriva a partire dalla seconda metà del XVI secolo, quando, in conseguenza della riforma protestante, in Olanda e in altri Paesi nordici è vietata la rappresentazione di scene sacre. Un avvenimento che costringe gli artisti a cercare nuovi temi e nuovi ingaggi: l’allora fiorente borghesia mercantile si aggiunge ai tradizionali committenti ecclesiastici. Un successo che porta la cosiddetta pittura di genere a diffondersi anche oltre confine. Così, mercati, botteghe e cucine con lavoratori e merci si alternano nei dipinti del tardo Cinquecento: la stagione aurea della natura morta è ormai alle porte.
Il Seicento: l’epoca d’oro della natura morta
Nel XVII secolo la natura morta si afferma come genere a sé, diffondendosi su scala europea. Paesi Bassi e Germania ne sono considerati la patria d’origine: come abbiamo visto, infatti, il tessuto sociale e l’interesse per la rappresentazione delle qualità materiche delle cose, favoriscono una produzione nuova e ingente di nature morte.
Ma questo tipo di opere si moltiplicano anche altrove in Europa. In Italia, per esempio, i centri più fiorenti sono Roma, l’area lombarda e Napoli, con alcuni nomi di spicco anche a Firenze.
Gli artisti spagnoli aderiscono a questo nuovo genere prediligendo la pittura di cibo (i cosiddetti bodegónes, dallo spagnolo osteria, cantina); mentre in Francia, la natura morta si diffonde più tardi rispetto agli altri Paesi e gli artisti che vi si cimentano si ispirano soprattutto alla produzione fiamminga.
Significato e sottogeneri della natura morta
Perché la natura morta ebbe così fortuna? Oltre agli avvenimenti sociali e culturali già accennati – e al crescente interesse degli artisti per la rappresentazione del reale in tutte le sue manifestazioni – le ragioni vanno cercate nel significato sottinteso di questi dipinti. La natura morta permette infatti di esprimere in forma simbolica la precarietà dell’esistenza e la transitorietà delle cose del mondo, un tema caro alla cultura del Seicento.
L’allegoria si legge, in modo più o meno evidente, in tutti i sottogeneri della natura morta, ovvero:
- Composizioni floreali: tra i temi più richiesti dal mercato, il bouquet – espressione della bellezza del creato – deve la sua fortuna anche alla “febbre” di fiori che caratterizza soprattutto l’Olanda (risale a quest’epoca la cosiddetta tulipomania, che portò alla fallimentare speculazione commerciale sui bulbi di tulipano).
- Composizioni di frutta: al pari dei fiori, anche la frutta è molto apprezzata da artisti e committenti. Colori, consistenze, forme: la frutta è un soggetto stimolante e non privo di significati allegorici.
- Pollame e selvaggina: a metà tra pitture di genere, quella di animali e il trompe-l’oeil, queste opere hanno spesso connotati lugubri e un sottotesto moraleggiante che allude alla caducità e alla vanità dell’uomo.
- Tavole imbandite: il cibo nell’arte trova una delle sue massime espressioni nei banchetti. Si passa da composizioni più spoglie e dimesse, a tavole sfarzose nelle quali l’opulenza e la varietà di specie animali e oggetti esotici testimoniano la ricchezza delle cucine borghesi e aristocratiche del tempo.
- Composizioni moraleggianti: la vanitas dell’esistenza terrena viene enfatizzata in composizioni che raffigurano teschi e altre ossa (simbolo della morte), clessidre, candele, orologi, spartiti e libri antichi (il tempo), specchi, gioielli e monete (la vita mondana).
3 famose nature morte tra le correnti europee
Per comprendere varietà e stili dei diversi autori, esaminiamo tre dipinti noti per la qualità pittorica.
Il primo non può che essere la Canestra di frutta (1597-1600 ca., Milano, Pinacoteca Ambrosiana), l’unica natura morta nota di Michelangelo Merisi detto Caravaggio. L’interesse di Caravaggio per il reale – compresi gli oggetti inanimati – è evidente fin dai suoi esordi: il Ragazzo con canestra di frutta del 1593-1594 circa (Roma, Galleria Borghese), e il meraviglioso Bacco (1598 ca.) degli Uffizi ne sono prova. La Canestra rappresenta però un apice senza rivali nella produzione del Merisi e nella collezione Ambrosiana, tant’è che anche il suo fondatore – il cardinale Federico Borromeo – dovette constatare con rassegnazione che “per la sua incomparabile bellezza ed eccellenza, [il dipinto, ndr] rimase solo”.
Alla precisione mimetica del tratto, si aggiunge infatti l’artificio della posizione della cesta che sembra sporgere dal piano, mentre il fondale uniforme esalta la plasticità della frutta. Molte sono le interpretazioni dell’opera, chiamata anche Fiscella (ovvero un cesto di vimini) dal cardinale, ma l’accostamento di frutti freschi e bacati, e di foglie raggrinzite con altre sane, rende indubbio il riferimento allo scorrere del tempo e alla fragilità della vita mondana.
Qualche anno dopo anche un altro cardinale dimostra una netta predilezione per la natura morta. Giovan Carlo de’ Medici, fratello del granduca Ferdinando II, arriva ad acquistare ben tredici opere del fiammingo Willem van Aelst, detto l’Olandese, specializzato nel genere. Durante il suo soggiorno fiorentino, Van Aelst produce numerose opere, comprese il Vaso di fiori con orologio (1652) e il suo pendant coevo, Natura morta con frutta e vaso di cristallo. Le tele, oggi conservate alla Galleria Palatina di Firenze, si trovavano nella camera privata della residenza cittadina del cardinale (il Casino degli Orti Oricellari in Via della Scala), insieme alla Madonna del Cardellino (Uffizi) e al Ritratto del Cardinal Bibbiena di Raffaello (Palazzo Pitti), e alla Madonna della cesta di Correggio (National Gallery di Londra).
Il Vaso di fiori con orologio, in particolare, colpisce per l’equilibrio cromatico dei fiori, che spiccano dal fondo scuro (tratto tipico dell’artista) e per l’accurata resa materica della superficie marmorea del ripiano e della tovaglia di seta blu. A contrastare l’apparente vivacità del bouquet, un orologio aperto rivela i suoi meccanismi, emblema dell’inesorabilità del tempo che scorre.
L’ultimo nome, ma non per importanza, che vogliamo citare qui è Juan Sánchez Cotán, tra i primi esponenti del genere in terra spagnola. Le sue tele si distinguono per il loro formato ridotto e per lo schema ricorrente: frutta e ortaggi su fondali scuri e ripiani disadorni sono descritti in modo tanto severo quanto poetico. Una ripetitività stimata dalla committenza, più interessata al soggetto che all’unicità dell’opera. Fa eccezione la sua Natura morta con volatili appesi, ortaggi e frutta (Madrid, Museo del Prado) realizzata nel 1602. La composizione, normalmente minimale e limitata a pochi alimenti, si arricchisce qui di numerosi volatili morti e appesi, richiamo esplicito alla finitezza terrena. Lo sfondo nero enfatizza ulteriormente gli elementi scelti, dipinti meticolosamente e illuminati da una luce laterale: un chiaroscuro deciso che drammatizza ancora di più la scena e rievoca le soluzioni caravaggesche.
Sánchez Cotán realizza l’opera mentre si trova ancora a Toledo, all’apice della sua carriera, solo un anno prima della decisione di entrare nell’ordine dei certosini e abbandonare tutto. Ma la sua maniera farà scuola e molti artisti ne seguiranno le orme.
Oltre il Seicento: la natura morta come espediente artistico
Oltrepassata la stagione più florida, nel Settecento la natura morta ripropone sostanzialmente le conquiste raggiunte nel secolo precedente, stemperando l’intento simbolico a favore di quello puramente decorativo. Anche se non mancano esempi eccellenti, in estrema sintesi possiamo affermare che il XVIII secolo non brilla per originalità o inventiva.
Di tutt’altro segno saranno invece Ottocento e Novecento. Con l’affermarsi dei movimenti artistici, infatti, la natura morta entra nel repertorio dei pittori attraverso la lente di precisi programmi formali e iconografici, collettivi o personali. Per gli Impressionisti, fiori, frutta e cose inanimate sono soggetti scelti in quanto volumi colpiti dalla luce e di cui oggi ci rimangono dipinti mirabili, a firma di Claude Monet, Pierre-Auguste Renoir, Camille Pissarro.
Una ricerca ancora diversa e individuale qualifica invece la pittura di Paul Cézanne nella quale viene abbandonato ogni tipo di mimetismo: gli oggetti vengono semplificati nelle loro forme essenziali, gli spazi compressi e i piani prospettici moltiplicati in punti di vista differenti. Il Cesto di mele del 1893 circa (Chicago, Art Institute) è uno dei suoi quadri di natura morta più celebri.
L’influenza di Cézanne fu fondamentale per l’evolversi del genere come accade per Henri Matisse, capostipite del movimento dei Fauves all’inizio del Novecento, e per Pablo Picasso, padre del Cubismo: entrambi autori di nature morte che sono un concentrato della loro poetica.
Unica – e incompresa – fu invece la voce di Vincent van Gogh: la sua tecnica pittorica fatta di tratti veloci e vigorosi ne rispecchia il sentire e i turbamenti (al centro anche di una riuscita pellicola di Julian Schnabel), ma non godette di alcuna fortuna finché l’artista fu in vita.
Arrivando al Novecento inoltrato, non possiamo non citare Giorgio de Chirico, autore della Metafisica e, ovviamente, Giorgio Morandi, le cui serie di bottiglie certificano la progressiva proiezione del pittore verso il raggiungimento di un equilibrio compositivo estremo e personalissimo.
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Ma, a ben guardare, il Dada, la Pop Art e quasi tutti i movimenti successivi, non si sono forse confrontati con il motivo della natura morta, adattandolo e stirandolo fino ai suoi limiti massimi?
Un bel traguardo per un genere che, inizialmente, era percepito come minore e che in Italia ricevette un nome solo nel XIX secolo: molto tempo dopo la sua diffusione e la creazione di opere, che oggi, possiamo a ben diritto definire capolavori.