Il Diavolo da sempre nell’arte assume molteplici forme, influenzate da tradizioni e riferimenti culturali diversi anche fra gli artisti della stessa epoca. L’evoluzione di questa figura tanto essenziale (il Male che si oppone al Bene) quanto cangiante, ha pertanto numerose letture e non tutte concordi tra loro.
In questo articolo analizzeremo alcuni dei tratti salienti e facilmente riconoscibili del Diavolo, proponendo infine una lettura tanto suggestiva quanto convincente.
Il Diavolo come la creatura multiforme per antonomasia
Oggi siamo abituati a chiamare il Diavolo in vari modi, tra i quali anche Satana e Lucifero. È però necessario ricordare che questi nomi non sono sempre stati interscambiabili: nel Medioevo e nel Rinascimento hanno indicato se non proprio creature differenti, quantomeno momenti e aspetti distinti della stessa. Ad esempio, il Diavolo (o Demonio) e Satana designano il Signore dell’Inferno al cui comando una schiera di diavoli tormenta le anime o induce le persone in tentazione; mentre Lucifero (il cui nome significa portatore di luce) è l’Angelo preferito da Dio, poi caduto dopo il peccato. Secondo certa critica, è anche per via di questa confusione linguistica – e quindi iconografica – che non vi sono raffigurazioni del Diavolo prima del IX secolo.
Da questo momento in poi, il Diavolo assume più forme contemporaneamente: è il drago sconfitto da Michele nell’Apocalisse (come si vede nel San Michele Arcangelo di Bernardo Zenale conservato alla Galleria degli Uffizi), ma anche colui che punisce i peccatori durante il Giudizio Universale.
Tra il XV e il XVI secolo si sviluppa inoltre un altro tema, la caduta degli angeli ribelli, che ha il suo apice con la tela di Lorenzo Lotto San Michele che scaccia Lucifero, oggi al Museo Pontificio di Loreto. A livello iconografico, il drago e l’angelo ribelle hanno ben poco in comune, eppure sono la stessa cosa.
I luoghi del Diavolo, ovvero le situazioni dove viene raffigurato in prima persona o tramite i suoi aiutanti demoniaci, sono però anche altri: le Tentazioni di Gesù, i tormenti dell’Inferno, la storia di Teofilo, la Tentazione di Giobbe, il giardino dell’Eden, i diavoli che tentano e aggrediscono Antonio Abate e i diavoli tentatori in generale.
L’arte religiosa ha sempre avuto una precisa funzione: educativa e di monito, doveva illustrare e ricordare ai fedeli la storia sacra e le conseguenze delle loro azioni.
Per questo, in gran parte delle opere che rappresentano il Demonio, questi appare come un essere mostruoso, bestiale, ma in molteplici forme.
Dobbiamo considerare che anche la figura del Salvatore, come quella di Maria e Pietro, subisce dei cambiamenti iconografici nel tempo: dal Cristo in croce, impassibile e sereno con gli occhi aperti e i piedi separati del IX secolo, si passa al Cristo sofferente, con i piedi uniti in un solo chiodo del Due-Trecento. Imberbe nei mosaici ravennati del VI secolo, assume più tardi le fattezze di un giovane uomo con capelli e barba lunga alle quali siamo abituati.
Se però questo passaggio è codificato dalla Chiesa, lo stesso non avviene per il Diavolo, il cui aspetto varia persino all’interno della stessa opera. Nel Libro delle ore dell’inizio del 1415 dei fratelli Limbourg (Musée Condé, Chantilly) le immagini dell’Inferno e della Caduta di Lucifero e degli Angeli ribelli non hanno nulla in comune. Così come nel Giudizio Universale del Beato Angelico (nel Museo di San Marco a Firenze), i diavoli sono rappresentati in molti modi: con o senza corna, con o senza coda, con o senza ali, esseri più o meno scuri, pelosi o glabri.
Le caratteristiche del Diavolo e come cambiano nel tempo
Anche se non c’è un modello unico per tutte le rappresentazioni del Diavolo, possiamo individuare alcune fonti di ispirazione: Pan, i satiri e i fauni della mitologia greca da un lato e la nudità dell’arte classica dall’altro. Dei primi, il Diavolo eredita l’aspetto animalesco. La nudità classica cambia invece segno quando entra in contatto con la figura diabolica, non più concepita come esaltazione delle forme ma come indicatrice di peccato e vergogna: il Diavolo è stato scoperto, letteralmente, e punito.
Gli attributi ricorrenti sono, in particolare:
- corna, coda, orecchie, zoccoli e corpo mezzo umano e mezzo animale;
- artigli o zampe unghiate, probabilmente derivanti dalle arpie o da altre creature tipiche dell’arte sasanide;
- irsutismo;
- capelli fiammeggianti, forse di origine orientale;
- forcone o bastone uncinato, tipico dei carcerieri;
- assenza di genitali;
- nerezza, come simbolo di corruzione e lordura;
- bocca spalancata e lingua in mostra;
- ali inizialmente piumate poi, dal XIV secolo in poi, membranose, simili a quelle dei pipistrelli.
Si tratta quindi, il più delle volte di un essere terrificante, grottesco, che esemplifica l’aberrazione della civiltà, ma il suo aspetto è mutevole. Drago o angelo espulso dal cielo, da Pan prende inoltre il volto, anche se Pan non era un dio malvagio. Come Sovrano degli Inferi è invece un mostro grasso, peloso, nudo e nero, perfetta sintesi del “pozzo nero di sozzura”, per dirla con le parole di papa Leone I. Durante il XII e il XIII secolo si aggiungono corna, zoccoli o artigli, coda e bastone. È più spesso senza ali ma, quando le ha, sono di pipistrello e – probabilmente in linea con la descrizione dantesca – divora i peccatori mentre defeca.
Con l’affermarsi dell’iconografia degli angeli ribelli, Lucifero, l’Angelo caduto per eccellenza, abbandona gradualmente l’aspetto bestiale e si fa più umano, fino a coincidere – in apparenza – con la figura di San Michele, come si vede nella già citata opera del Lotto. Un tema, quello di Lucifero e Michele, che si protrae fino all’epoca romantica, come dimostrano gli acquerelli e le incisioni di William Blake (dove appare un Satana eroico, quasi erotico), e le litografie di Delacroix per il Faust di Goethe.
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Giudizi universali a confronto: Giotto, Signorelli e Michelangelo
Per comprendere ancora meglio l’evoluzione grafica e simbolica del Diavolo (e della sensibilità artistica) possiamo mettere a confronto tre rappresentazioni dello stesso tema: il Giudizio universale di Giotto della cappella dell’Arena (Padova, 1304-1314), l’omonimo affresco di Luca Signorelli nella Cappella della Madonna di San Brizio (Orvieto, 1503 circa) e il celebre Giudizio universale di Michelangelo Buonarroti, nella Cappella Sistina (Roma, 1536-1541).
Giotto raffigura Satana come un gorilla peloso e cornuto intento a straziare i dannati, mangiandoli e sbattendoli attorno. Satana si trova anche nell’affresco della parete orientale della stessa cappella, nel riquadro dedicato a Giuda che riceve il pagamento per il trattamento di Cristo. Qui assume le sembianze di un essere molto più ridotto, per dimensioni e dettaglio: un’ombra nera, poco caratterizzata, che stona a confronto con la minuzia e il trattamento psicologico degli altri personaggi. Una presenza scura, ma del tutto marginale rispetto alla carica emotiva della scena.
Con Signorelli, invece, il Diavolo e i suoi aiutanti acquistano una dimensione erotica, prima sconosciuta. Nell’affresco de I dannati si assiste infatti a una prova inedita di violenza e crudeltà, con torture anche a sfondo sessuale, nudità esposte, corpi che si contorcono intrecciandosi tra loro.
Infine, l’ultimo Giudizio, quello magistrale di Michelangelo. Il clima della Riforma protestante e del Concilio di Trento probabilmente influirono sulla scelta del soggetto, quasi del tutto abbandonato dopo il 1500 e ritenuto sconveniente anche da alcuni contemporanei del Buonarroti. Qui viene eliminata ogni distinzione spaziale tra i due Regni: gli angeli non hanno le ali, le anime vengono contese – con scontri anche feroci – tra le forze del Bene e quelle del Male e Satana, per come l’abbiamo conosciuto sin qui, scompare. Non con lui il senso di angoscia, che anzi si fa ancora più tormentato ed evidente perché prende le sembianze dei volti terrorizzati, dei corpi stracciati e svuotati. Un caos dove non è facile distinguere chi si salverà e chi invece verrà dannato. Satana scompare, dicevamo, o almeno cambia forma, ancora una volta: qui è Minosse che guida le anime all’Inferno.
E non un Minosse qualunque, ma Biagio da Cesena (secondo il racconto di Vasari), ovvero il maestro di cerimonie del Vaticano che aveva criticato l’artista per la sua scelta audace.
Daniel Arasse, storico francese studioso dell’arte Rinascimentale italiana, ha interpretato la scelta di Michelangelo come la prova di un processo di interiorizzazione del Diavolo. Da figura pedagogica, che serviva a mettere in guardia gli spettatori dai pericoli e dalle tentazioni esterne e multiformi, il Demonio passa a essere un tratto, vizioso, insito nell’essere umano stesso. Il Diavolo non è più fuori dall’uomo, ma presente al suo interno e per questo può assumere il volto, anzi il ritratto, di una persona vera.
Nei secoli successivi non si riconoscono rappresentazioni rilevanti del Diavolo. Lo stesso Caravaggio ricorre al simbolo del serpente nella sua Madonna dei Palafrenieri dell’inizio del Seicento (Galleria Borghese, Roma). Bisognerà attendere la fine del Settecento e l’Ottocento, ovvero il Romanticismo, per ritrovare il Diavolo nei dipinti di Goya e Blake che fanno di questa creatura mostruosa, ormai lontanissima dalle sue origini, un motivo di scandalo e sovversione, all’interno di un immaginario del tutto personale.
Il processo di appropriazione del demonio da parte dell’artista si è dunque compiuto e l’esito desta ancora meraviglia.