Forse non tutti sanno che Firenze è la città che conserva il maggior numero di quadri di Raffaello al mondo. Un primato già noto nella seconda metà del Settecento, quando le opere fiorentine del Sanzio rappresentavano uno dei principali motivi di visita del capoluogo toscano, insieme ad altri capolavori come la Venere dei Medici e la Venere di Urbino di Tiziano.
Come scriveva nel 1779 l’allora direttore della Galleria degli Uffizi Bencivenni Pelli, il granduca di Toscana era “il sovrano più ricco di quadri di Raffaello”. E da allora gli Uffizi e Palazzo Pitti sono mete imperdibili per chi vuole godere di questo inestimabile patrimonio.
Raffaello a Firenze
Giunto in città per vedere da vicino le opere rinomate di Leonardo e Michelangelo e “per l’amore che portò sempre all’eccellenza dell’arte” (come racconta Vasari), Raffaello passò a Firenze quattro anni, dal 1504 al 1508, anche se non tutti in un unico soggiorno.
I ricchi e colti mercanti fiorentini contribuirono alla sua notorietà offrendogli protezione e procurandogli numerose committenze.
Nel 1508 Raffaello si trasferì a Roma dove era già attivo il suo conterraneo e congiunto Donato Bramante, pittore e architetto, che molto si spese per la promozione dell’Urbinate presso il pontefice Giulio II. Secondo Vasari, Bramante volle Raffaello anche come giudice della competizione per la realizzazione del miglior modello in cera di grande formato della scultura del Laocoonte, ritrovata solo pochi anni prima.
Nella città capitolina, Raffaello lavora alle dipendenze del papato e del patriziato locale che ne consacrano definitivamente talento e fama.
A Firenze sono oggi conservate non solo opere risalenti al periodo toscano, ma anche alcune acquisizioni appartenenti al soggiorno romano. Una visita ai principali musei della città offre quindi una panoramica completa dell’evoluzione artistica del maestro di Urbino, erede dell’Umanesimo quattrocentesco e interprete eccelso dell’allora riscoperta tradizione classica.
Opere di Raffaello agli Uffizi
La Galleria degli Uffizi custodisce la Madonna del Cardellino, il Ritratto di Elisabetta Gonzaga, il San Giovannino, i Ritratti di Agnolo e Maddalena Doni, il Ritratto da Guidubaldo da Montefeltro, oltre che alcuni disegni preparatori conservati presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. Per dare al lettore alcune informazioni di contesto, senza tuttavia togliere il piacere della visita, ci soffermiamo qui su alcune di queste opere dandone una lettura più approfondita.

La Madonna del Cardellino
Opera risalente al primo periodo fiorentino, la Madonna col Bambino e San Giovannino è divenuta famosa con il nome di Madonna del Cardellino per via del suo soggetto: la Vergine Maria, seduta all’aperto, nella mano sinistra un testo sacro, tiene tra le ginocchia Gesù Bambino intento ad accarezzare il cardellino portato da un San Giovanni infante.
La tavola rivela l’influenza delle opere del Perugino, dei maestri fiorentini e i suoi studi sulle proporzioni della natura. La struttura piramidale della composizione richiama distintamente il cartone leonardesco della Madonna col Bambino e Sant’Anna – oggi perduto – e la Madonna col Bambino di Bruges di Michelangelo.
L’esito è tuttavia altrettanto originale e ammirevole, tanto che alla metà dell’Ottocento, la Madonna del Cardellino era tra i quadri di Raffaello più copiato nella Galleria degli Uffizi, insieme al suo Autoritratto e a La Fornarina (oggi a Palazzo Barberini, a Roma).
Un’opera di bellezza ideale e dinamica, ricca di simbolismi devozionali come il cardellino, simbolo del sacrificio di Cristo, che ha rischiato di essere perduta per sempre. Commissionata per il matrimonio di Lorenzo Nasi nel 1506, la tavola venne distrutta a seguito del crollo della casa del mercante nel 1547: i suoi diciassette frammenti furono però recuperati e restaurati, con ogni probabilità, da Michele di Ridolfo del Ghirlandaio.
I Ritratti di Agnolo e Maddalena Doni
Ricco mercante iscritto all’Arte della Lana e figura di spicco del mecenatismo fiorentino, Agnolo Doni era un collezionista di arte, di oggetti preziosi e di gemme antiche. A lui è legato anche il famoso Tondo Doni, opera di Michelangelo, che si trova esposto accanto al doppio ritratto di Raffaello. Un ritratto, originariamente in forma di dittico, commissionato dal mercante in occasione delle sue nozze con la giovane Maddalena di Giovanni Strozzi, appartenente a un ramo cadetto della famiglia Medici.
Entrambe le figure sono dipinte sul recto di due tavole che nel verso recano invece la rappresentazione monocroma di due episodi consequenziali tratti dalle Metamorfosi di Ovidio: il Diluvio degli Dei (sul verso del ritratto di Agnolo) e la rinascita dell’umanità grazie a Deucalione e Pirra (sul verso di quello di Maddalena), realizzati da un allievo di Raffaello. Una scelta che la critica ha interpretato come messaggio di buon augurio per la coppia di sposi.
Agnolo e Maddalena sono ritratti a mezzo busto, sullo sfondo di un paesaggio comune, solo parzialmente delimitato dalla balaustra su cui Agnolo poggia il braccio. Indagini radiografiche hanno dimostrato alcuni ripensamenti nel ritratto di Maddalena che, inizialmente, era inscritto in un interno domestico – di gusto fiammingo – poi corretto nell’ambientazione che vediamo oggi. Poiché lo stesso non è stato rilevato per Agnolo, si è propensi a ritenere il ritratto della donna di poco anteriore a quello del mercante.
Anche qui il debito nei confronti di Leonardo è evidente: il rapporto tra figura e paesaggio, la disposizione non perfettamente frontale del busto, l’impianto della composizione ricordano infatti la Gioconda, probabilmente studiata da Raffaello a Firenze intorno alla fine del 1504. Non vi è traccia, però, dello sfumato leonardesco, sostituito invece da una descrizione precisa e dettagliata delle forme, dei colori e dei dettagli, come le vesti e i gioielli indossati da Maddalena. Tra questi spicca in particolare il pendente a forma di liocorno – visibile a uno sguardo molto ravvicinato – che incastona uno smeraldo, un rubino e uno zaffiro, sotto i quali è appesa una grossa perla scaramazza. Tutto lascia pensare a un significato metaforico di buon auspicio: l’animale mitologico, simbolo di castità; lo smeraldo, che si credeva avesse poteri taumaturgici; il rubino, ritenuto fonte di forza per il corpo e prosperità; lo zaffiro, simbolo di purezza; e la perla, spesso donata alle spose, allusione alla verginità.
Opere di Raffaello a Palazzo Pitti
Palazzo Pitti, e in particolare la Galleria Palatina, è la dimora di opere quali La Velata, la Madonna della seggiola, la Madonna del Granduca, il Ritratto di giovane con pomo, il Ritratto del cardinale Bibbiena, il Ritratto di Leone X, il Ritratto di Tommaso Inghirami, la Visione di Ezechiele, l’Autoritratto, la Madonna del Baldacchino, la Madonna dell’Impannata, il Ritratto femminile detto La gravida.

La Velata
Opera icona della Galleria Palatina e anche una delle più rappresentative di Raffaello, La Velata fu realizzata dopo il trasferimento dell’artista a Roma, ma la datazione precisa è ancora oggetto di dibattito.
La giovane donna del quadro è ritratta su uno sfondo non definito, con il busto di tre quarti e lo sguardo rivolto allo spettatore, la mano destra poggiata sul petto, la sinistra appena visibile. Un velo bianco le copre i capelli, tra i quali spicca un pendente con un rubino e una perla, incorniciandone la figura. L’identità del soggetto rimane ad oggi ignota. Secondo Vasari, che vide l’opera nella casa del mercante Matteo Botti, si trattava della donna “la quale Raffaello amò sino alla morte”. Una parte della critica vi ha quindi riconosciuto lo stesso volto de La Fornarina, ovvero quello di Margherita Luti, figlia del fornaio senese Francesco Luti, amata dal pittore. Tuttavia non tutti concordano, alcuni ritengono che si tratti di due persone diverse: il girocollo di pietre preziose, la veste sontuosa e il monile della capigliatura, tipici della nobiltà fiorentina, sarebbero infatti poco conformi alle umili origini della Fornarina.
Qualunque sia la risposta, resta il fatto che la vera protagonista dell’opera è la manica in primo piano. Il linguaggio pittorico di Raffaello raggiunge qui uno dei suoi apici: le variazioni cromatiche e il tratto descrivono alla perfezione la composizione materica della stoffa, i suoi volumi e i suoi giochi di luce. Il tutto viene magnificato dalla posa del soggetto, che mette in rilievo questo particolare dell’abito, e dall’impianto del dipinto: abbandonata la struttura verticale degli esordi, si allarga verso i margini della tela. Le radiografie hanno inoltre dimostrato che Raffaello tornò nel tempo sulla manica, ampliandola e dandole la forma che vediamo oggi.
Come in altri ritratti femminili, anche La Velata è espressione della grazia e della virtù muliebri già elogiate da Baldassarre Castiglione, concretizzate nel gesto di riserbo e fedeltà della mano destra con le dita aperte sul corsetto all’altezza del cuore. L’incarnato roseo, la finissima ciocca di capelli scostata sulla fronte, lo sguardo vivace testimoniano invece la giovane età della ragazza.
Infine, un’ultima curiosità. La cornice del dipinto non è coeva a Raffaello, ma risale alla metà del Seicento. La sua decorazione fa parte di una tipologia nota nel mondo come cornice Pitti, tipica di Firenze. L’intaglio raffigura maschere di pipistrelli alati, foglie e altre bizzarrie caratteristiche di questo stile, nascondendo la quadratura del profilo.
I visitatori non mancheranno di notare inoltre la modalità particolare dell’allestimento: l’opera non è appesa a chiodi, ma agganciata a dei cardini (bilicatura, in gergo) che ne consentono il movimento lungo l’asse verticale, con un meccanismo simile a quello dell’anta di una finestra. Questo escamotage, introdotto nel XIX secolo, serviva a orientare il dipinto a favore di luce per poterlo apprezzare e copiare meglio nelle varie ore del giorno.

La Madonna della seggiola
Oggetto di leggende tra le più fantasiose, La Madonna col Bambino e San Giovannino, detta Madonna della seggiola, è considerata da molti il più grande capolavoro di Raffaello.
Realizzata anch’essa lontano da Firenze intorno al 1512 per un ignoto committente, la tavola giunse in città già alla fine del XVI secolo come conferma la sua collocazione prima nella Tribuna degli Uffizi, poi a Palazzo Pitti e, durante il principato di Ferdinando Maria de’ Medici, nella camera da letto del Gran Principe.
Il formato è quello del tondo, diffuso in ambiente fiorentino, che Raffaello sfrutta in modo nuovo con i soggetti non semplicemente inseriti dentro alla struttura circolare, ma disposti per assecondarla.
La Madonna è vista di fianco, seduta su una sedia camerale, mentre stringe il Bambino, aiutandosi con la gamba leggermente sollevata. Entrambi guardano verso lo spettatore, mentre un San Giovannino in preghiera, in secondo piano, volge lo sguardo alla tenera scena. La seggiola, da cui la tavola prende il nome, è visibile nel dettaglio dello schienale che appare in primo piano sulla sinistra ed è funzionale all’abbraccio tra la Madre e il Figlio.
L’ispirazione della composizione è stata individuata nella Madonna col Bambino di Donatello (la Madonna Dudley, oggi al Victoria & Albert Museum di Londra) posseduta dal mercante fiorentino Piero del Pugliese e poi passata nelle collezioni medicee. Anche qui si ritrova infatti il motivo della gamba alzata e dell’inclinazione del volto di Maria verso il Bambino.
Nella sua Madonna, Raffaello reinterpreta caratteristiche di vari grandi artisti; la dolcezza degli atteggiamenti tipica del Perugino, la forza di Michelangelo presente nella plasticità dei corpi (in particolare del gomito del Bambino che sembra quasi fuoriuscire dal quadro), infine l’armonia cromatica di Fra Bartolomeo, suo sodale nel periodo fiorentino. Proprio il connubio perfetto tra ieraticità e umanità, sacralità della scena e intimità terrena delle pose e degli sguardi l’ha resa una delle opere dell’Urbinate più ammirate di tutti i tempi.

Il Ritratto di Leone X
Un’altra seggiola chiude il nostro percorso tra le opere di Raffaello a Firenze ed è quella su cui compare seduto Leone X, pontefice della casata dei Medici e successore di Giulio II. Il suo ritratto, con i cardinali suoi cugini Giulio de’ Medici (che diventerà papa Clemente VII, dopo la morte di Leone X) e Luigi de’ Rossi, è stato oggetto di un lungo restauro ad opera dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze; è di recente rientrato a Palazzo Pitti dopo il prestito romano in occasione della mostra per i cinquecento anni dalla morte dell’artista.
Ambientato in un interno austero e solenne, probabilmente una sala della biblioteca Vaticana, il dipinto presenta i tre porporati in atteggiamento riflessivo e solenne. Il pontefice, ritratto di tre quarti, è al tavolo di lettura, la lente profilata in oro nella mano sinistra (era noto per la sua miopia) mentre la destra sfiora le pagine di uno spesso volume, identificato come la preziosissima Bibbia miniata conservata ancora oggi al Kupferstichkabinett di Berlino. Sul tavolo compare inoltre una campanella istoriata con motivi che richiamano le decorazioni antiche che Raffaello ebbe modo di vedere a Roma, mentre ai due lati del pontefice sono raffigurati, in piedi, i cardinali: Giulio de’ Medici alla sua destra (la sinistra dello spettatore) e Luigi de’ Rossi alla sua sinistra (alla destra dello spettatore). La loro presenza ha fatto pensare a un’aggiunta successiva non autografa, ma gli studiosi sono oggi convinti che tutta l’opera sia stata eseguita da Raffaello. Ma in quale circostanza e con quale significato?
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Il motivo è ricordato da diverse fonti ed è stato rintracciato nelle nozze italiane dei duchi di Urbino, Lorenzo, nipote del pontefice, con la nipote del re di Francia Francesco I, Madeleine de la Tour d’Auvergne. Un’unione importante, che sanciva il legame dei Medici con i reali francesi e che dovette quindi essere celebrata con tutti i più alti onori.
Il papa, atteso al banchetto, non vi potè partecipare e inviò quindi, in sua vece, la sua effige: il ritratto arrivò a Firenze “fresco di pittura” nel 1518, appena in tempo per essere posto al centro della tavola nuziale, dove venne ammirato e celebrato per la sua straordinaria qualità.
Il naturalismo qui raggiunto e lodato da più parti a cominciare dal Vasari, si rivela nella rappresentazione delle figure. Il pittore non risparmia, nella sua aderenza al vero, nemmeno il pontefice: le sue fattezze sgraziate sono tuttavia bilanciate dallo sfarzo delle vesti e dalla ricchezza dell’ambientazione e degli oggetti e dell’ambientazione. Nella matericità dei tessuti e dei manufatti: il raso, il damasco, la seta, il metallo lucido, gli ori, si intuisce un certo compiacimento, lo stesso che si può ravvisare nei dettagli della Velata, coerente alla sensibilità di Raffaello per la bellezza e la raffinatezza.
Quanto il dipinto fosse realistico lo conferma anche un episodio narrato da Federico Zuccari nel suo Idea dei pittori, scultori e architetti del 1607. L’autore cita infatti un aneddoto secondo il quale il vescovo Baldassarre Turini da Pescia, convinto di trovarsi di fronte al pontefice in carne e ossa, si sarebbe avvicinato al dipinto con in mano una bolla affinché il papa la firmasse.
Sebbene Raffaello non abbia goduto sempre della stessa considerazione – basti pensare al movimento dei Preraffaelliti inglesi del XIX secolo – il suo ruolo nella pittura Rinascimentale e successiva è indubbio.
Quando, alla fine del Seicento, Ferdinando Maria de’ Medici, figlio di Cosimo III, decise di acquistare la Madonna dal collo lungo di Parmigianino la descrisse così in una delle sue lettere: “disegnata come da Raffaello, finita con l’anima, ma senza stento, e colorita a meraviglia”. Una conferma di quanto il culto dell’Urbinate fosse – a quasi duecento anni dalla sua morte – ancora vivo e sentito.
La sua eredità, visibile tuttora nelle collezioni di Firenze e del mondo, lascia agli spettatori un solo motivo di insoddisfazione: il rimpianto per quello che avrebbe potuto ancora creare se non fosse morto nel pieno della sua produzione a soli 37 anni.