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Laocoonte, storia di un’opera iconica

Laocoonte, storia di un’opera iconica

Laocoonte
Laocoonte

È alto più di due metri e pesa oltre 2 tonnellate, ma il suo peso nella storia dell’arte è incommensurabile. Stiamo parlando del Laocoonte, opera in marmo realizzata nel I secolo a.C. riemersa nel Cinquecento e, da allora, divenuta sinonimo di perfezione plastica ed espressiva.
La sua storia e il suo significato? Vediamoli insieme in questo articolo.

Cosa rappresenta il gruppo scultoreo

La scena raffigurata viene narrata da diverse fonti antiche ma è Virgilio, nel II libro dell’Eneide, a darcene la versione più estesa. È il decimo anno della guerra di Troia e i Greci hanno deciso di tentare la via dell’inganno suggerita da Ulisse. Fingono quindi la resa e abbandonano l’accampamento, lasciando solo sulla spiaggia un enorme cavallo di legno. Alla sua vista, i Troiani sono confusi e indecisi sul da farsi. Non così Laocoonte, sacerdote di Nettuno, che subito ammonisce i suoi concittadini sulla nota meschinità dei nemici e sui pericoli che il cavallo nasconde: 

“<<Qualunque cosa sia, temo i Danai (i greci, ndr), soprattutto se portano doni>>. 
Dopo aver così parlato, lanciò con tutte le forze la grande asta 
nel fianco del cavallo e nel ventre ricurvo con solida armatura”. 
(Eneide, II, vv. 49-53)

Poco dopo, dall’isola di Tenedo spuntano due enormi serpenti che con “occhi ardenti iniettati di sangue e di fuoco” e “bocche sibilanti” raggiungono i figli di Laocoonte, Antifate e Timbreo, stritolandoli e divorandoli. Inutilmente Laocoonte corre in loro aiuto: preso anch’egli tra le spire dei due mostri, viene ugualmente massacrato. Terminata l’orribile carneficina, i due serpenti si rifugiano presso il tempio di Atena. I Troiani non hanno più dubbi: Laocoonte è stato punito dalla dea per aver violato, con la sua lancia, il legno sacro del cavallo che deve quindi essere accolto come dono all’interno delle mura cittadine.  

Il gruppo del Laocoonte immortala il tentativo disperato del padre e dei due figli di liberarsi dai serpenti. La posa dei personaggi, le espressioni dei volti, l’atteggiamento dei corpi: tutto contribuisce alla resa di un pathos estremo e toccante.  Che l’episodio raffigurato dall’enorme scultura fosse proprio quello narrato da Virgilio, lo riconobbero subito anche i primi che la videro: Michelangelo e Giuliano da Sangallo.

Ritrovamento e storia del Laocoonte

È il 14 gennaio 1506 quando la statua viene casualmente rinvenuta nei pressi della vigna di Felice de Fredis, sul monte Oppio a Roma. La notizia desta subito scalpore, suscitando anche l’interesse di papa Giulio II, rinomato collezionista ed estimatore dell’arte antica. Il pontefice, incuriosito dalla notizia, manda subito sul posto Giuliano da Sangallo e Michelangelo, per stimare il valore del ritrovamento. 
I due non hanno esitazioni: la scultura è la stessa menzionata da Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia quando scrive: “È questo il caso del Laocoonte che è nella casa di Tito imperatore, opera da giudicarsi al di sopra d’ogni altra, della pittura come della statuaria (scultura in bronzo, ndr). Lo scolpirono in un sol blocco di marmo, coi figli e i mirabili viluppi dei serpenti, lavorando insieme di comune intesa, i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro, Rodii”. 

Con ogni probabilità, Plinio si riferiva a tre scultori greci operanti nel I secolo a.C., autori anche di un altro gruppo marmoreo scoperto solo molto più tardi, sempre nel Lazio. Nel 1957 vennero infatti ritrovate quattro imponenti sculture all’interno della grotta di Sperlonga, nota anche come grotta di Tiberio. Il complesso scultoreo, divenuto famoso con il nome di Odissea di marmo, decorava la spelonca appartenuta all’imperatore romano. Sulla nave del gruppo di Scilla sono ancora visibili le firme dei tre scultori (Agesandro, Polidoro e Atenodoro) già menzionati da Plinio.
Oltre alla firma e al materiale, gli studiosi hanno riconosciuto stilemi e soluzioni analoghe tra queste sculture e quella romana. Il loro raffronto è dunque servito a circoscrivere il periodo di creazione del Laocoonte, opera ellenistica databile oggi tra il 40 e il 20 a.C. 
Ma questo si scoprirà solo molto tempo dopo il suo ritrovamento. 

Giulio II non se la lascia sfuggire e, dopo averla acquistata, fa disporre la maestosa scultura in una nicchia del nuovo cortile del Belvedere nei Palazzi Vaticani, squisito esempio di Giardino all’italiana progettato da Donato Bramante.  
Il legame con Plinio il Vecchio e Virgilio, due degli autori classici più apprezzati dal Rinascimento, e l’espressività travolgente dell’opera contribuiscono alla sua immensa fortuna: il Laocoonte anima e influenza infatti profondamente il dibattito culturale e la scena artistica del tempo.  

laocoonte baccio bandinelli
Laocoonte, Baccio Bandinelli

La fama del Laocoonte nel Cinquecento

La notizia della scoperta e la fama del Laocoonte sono immediate. All’interesse degli artisti si aggiunge quello di poeti e letterati, fioriscono pareri e componimenti dedicati all’opera. Elogiato per il suo realismo e la sua carica drammatica, il Laocoonte diventa il simbolo della Roma rinata sotto il papato di Giulio II. Tra i motivi di lode più suggestivi la capacità della scultura di incarnare, nei suoi tre personaggi, tre stadi emotivi differenti: il dolore, la morte e la paura, o la morte, la paura e la compassione. 
Il marmo, affermano gli intellettuali rinascimentali, vibra di emozioni reali, visibili e quasi udibili nel grido spezzato del padre e nel terrore dei figli immortalati nell’atto di morire.  

E non sfugge nemmeno quel “ex uno lapide” – in un solo blocco – che Plinio ha usato per descrivere il Laocoonte. Tanto che molti, traducendo alla lettera, tentano nuovamente l’impresa di ricavare da un unico blocco di marmo un’intera scultura. 
Il David di Michelangelo, conservato alla Galleria dell’Accademia di Firenze, è l’esempio più celebre, ma sulla stessa scia si collocano anche il Ratto delle Sabine del Giambologna della Loggia dei Lanzi e la statua equestre di Luigi XIV realizzata da Bernini, a Versailles. 
In realtà oggi sappiamo che la statua del Laocoonte fu realizzata in più parti assemblate insieme, ma in modo talmente armonico da sembrare tratta da un solo blocco. Le parole di Plinio non si dovrebbero quindi intendere alla lettera, ma in senso lato. O, almeno, questo è quello che sostiene una parte della critica contemporanea. 
Prima di passare al giudizio degli storici dell’arte, è utile menzionare un altro episodio che dà la misura della risonanza del Laocoonte sugli ammiratori cinquecenteschi. 

Molti si cimentarono nella realizzazione di copie del Laocoonte e, come nel caso dell’originale, interesse e accesi diverbi animarono la scena culturale.Il caso più eclatante è la copia realizzata in marmo dal fiorentino Baccio Bandinelli tra il 1520 e il 1523, esposta alla Galleria degli Uffizi. L’opera fu commissionata dal papa Leone X de’ Medici che voleva inviarla come dono diplomatico al re francese Francesco I di Valois. La scultura però non arrivò mai a destinazione. A Leone X, morto nel 1521, seguì Clemente VII; il nuovo papa volle tenere per sé la copia del Bandinelli, facendola installare nel Palazzo Medici in Via Larga, a Firenze. Bandinelli aveva apportato qualche cambiamento rispetto all’originale antico: lo scultore aveva infatti integrato gli arti superiori mancanti del sacerdote e dei due figli, modificando anche alcune altre parti del fanciullo alla destra dell’osservatore. 
“Arrecò quest’opera gran fama a Baccio” scrive Giorgio Vasari nelle sue Vite, ma anche qualche aspra critica, come quella di Benvenuto Cellini che nelle sue Rime definisce Bandinelli “invidioso, avaro, scarpellino”. Non un vero e proprio bisticcio tra artisti, ma comunque un segnale della aperta rivalità artistica che intercorreva allora tra Roma e Firenze. 

ratto delle sabine giambologna
Il ratto delle Sabine, Giambologna

Laocoonte: copia o originale? Teorie a confronto

È difficile trovare un’altra scultura di epoca classica che abbia goduto – e tuttora goda – della stessa fama che il gruppo del Laocoonte ha incontrato fin dal giorno della sua scoperta. Ed è altrettanto difficile immaginare un’opera dalla genesi così incerta e dibattuta. La comunità scientifica ha infatti scritto e discusso molto sul significato e sulla storia del Laocoonte senza riuscire a raggiungere un parere unanime. 
Una parte sostiene la tesi della copia da un originale greco in bronzo,  oggi perduto. Altri ritengono il gruppo marmoreo come primo e unico esemplare – frutto di un disegno influenzato da soluzioni precedenti e contemporanee allo stesso – ma di fatto originale. 
Non è possibile e neppure utile, riproporre qui i dettagli dell’una e dell’altra fazione, né spetta a noi definire chi ha formulato la teoria più convincente. 
Tuttavia, riassumerne brevemente le ragioni può aiutare a capire la complessità della questione, lasciando al lettore il gusto di approfondire e maturare un giudizio proprio.

Il Laocoonte come copia

Tra gli autori che hanno portato avanti la prima ipotesi va menzionato Bernard Andreae. Secondo lo studioso, l’opera rappresenterebbe la riproduzione in marmo, risalente all’epoca di Tiberio, di un originale in bronzo creato a Pergamo verso il 140 a.C. 
Un originale nato con un chiaro intento politico. Tra il 141 e il 139 a.C. Scipione Emiliano intraprese una missione diplomatica presso i principali stati orientali, inclusa Pergamo. 
La città, considerata l’erede dell’antica Troia, era allora governata dal re Attalo II. L’opera venne dunque commissionata per ricordare ai Romani e ai Pergameni le origini comuni dei due popoli, nel tentativo di conciliare qualunque tipo di ostilità ed evitare a Pergamo la sorte già toccata a Corinto e Cartagine (distrutte dai romani nel 146 a.C.). 

L’originale bronzeo sarebbe dunque servito agli scultori di Rodi come modello per rappresentare, mediante la figura del sacerdote che tentava di ostacolare l’ingresso del cavallo di legno, la fatalità della distruzione di Troia, che permise la fuga di Enea e la nascita di Roma, erede della gloriosa Ilio. Come suggerisce Andreae, l’interpretazione iconologica si concentra sul legame tra la caduta di Troia e la fondazione di Roma, celebrando così indirettamente la figura di Enea, antenato del popolo romano e in particolare della gens Iulia, alla quale Tiberio (lo stesso delle statue di Sperlonga) era legato per adozione. La scultura sarebbe poi passata da Tiberio fino a Tito, quindi citata da Plinio tra le opere presenti nella villa di quest’ultimo.  

Il Laocoonte come originale

Contrario a questa versione è, tra gli altri, Salvatore Settis. In un recente volume (Laocoonte. Fama e Stile, 1999, Donzelli Editore), Settis conduce un attento riesame delle fonti e offre una lettura opposta a quella di Andreae. 
A partire dall’analisi dello scritto di Plinio – il quale cita espressamente i nomi dei tre autori definendoli peraltro summi artificies (sommi artisti) e non copisti – e ricostruendo il contesto storico e artistico in cui operarono Agesandro, Polidoro e Atenodoro, l’autore confuta la tesi della copia. 
Tesi che, secondo questa interpretazione, si fonda innanzitutto su un presupposto debole, ovvero che la creazione delle due versioni del Laocoonte (il presunto originale bronzeo e la copia successiva) dovesse avere per forza un movente politico

Ma questo è in contrasto con quanto sappiamo sulle abitudini decorative delle dimore romane. Come riferisce Vitruvio, infatti, le rappresentazioni degli dei e della mitologia greca, delle vicende di Ulisse o delle battaglie di Troia, erano molto comuni e servivano ad affermare l’appartenenza a una precisa élite socio-culturale. In altre parole, non c’era bisogno, per questo tipo di raffigurazioni, di avere una giustificazione militare o biografica. Costringendo la lettura del Laocoonte – così come di altri episodi mitologici – in un senso puramente politico, si priva il mito della sua forza in quanto tale, del suo valore intrinseco, invece pienamente riconosciuto e diffuso nella società romana dell’epoca. I miti sono infatti intrisi di simbolismo e insegnamenti morali e riflettono le credenze, le norme e le aspirazioni della società antica. Il mito fungeva da strumento educativo, religioso e culturale, che consolidava la coesione sociale e l’identità collettiva.

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I restauri e la questione del braccio

Quando fu rinvenuto il Laocoonte era quasi del tutto intatto. Mancavano solo il braccio del sacerdote, quello del figlio minore, le dita della mano destra del maggiore e altre parti minori. 
Restauri e ripristini degli elementi mancanti iniziarono da subito e proseguirono nel corso dei secoli. Il braccio del Laocoonte, in particolare, è oggetto di interrogazioni e versioni discordanti: c’è chi lo immagina teso verso l’alto e chi invece piegato e avvolto dalle spire. 

Il primo intervento di ripristino è ad opera di Baccio Bandinelli che ricostruisce un braccio provvisorio in cera, modello utile per la sua copia. Qualche anno dopo, intorno al 1532-33, Giovanni Angelo Montorsoli, allievo di Michelangelo, viene incaricato da Clemente VII di restaurare le sculture del Belvedere, tra cui l’Apollo e il Laocoonte
Nel 1720 compare un braccio incompiuto di marmo, piegato all’indietro, attribuito a Michelangelo, ma mai installato. Tra il 1712 e il 1756 vengono invece aggiunte le braccia dei figli ad opera dello scultore pistoiese Agostino Cornacchioni. Ma è il restauro del 1957 di Filippo Magi quello più famoso, anche perché legato a un ritrovamento tanto fortunato quanto misterioso. In quell’occasione viene infatti ripristinato il braccio originale del Laocoonte che era stato recuperato per un fortuito caso da Ludwig Pollack nel 1905 presso la bottega di uno scalpellino non meglio identificato a Roma. 

Fatta eccezione per una breve parentesi parigina (1798 – 1815) a seguito delle spoliazioni napoleoniche (che interessarono, tra gli altri, anche Castel Sant’Angelo), il gruppo del Laocoonte è sempre stato conservato in Vaticano, dove è tuttora visibile. Da qui non ha mai smesso di esercitare un’influenza magnetica, ravvisabile nelle numerose copie successive, comprese le versioni più dissacranti. Non tutti forse sanno che attorno alla metà del XVI secolo l’incisore Niccolò Boldrini realizzò una caricatura del Laocoonte su invenzione di Tiziano. Nella xilografia si vedono chiaramente il padre e i due figli in forma di scimmie, avvolti dalle serpi. Non sappiamo quale fosse il significato di questa raffigurazione, ma questa ci conferma la notorietà del soggetto, che per essere il protagonista in una reinterpretazione grottesca doveva essere conosciuto e assolutamente riconoscibile. Caratteristiche mai mancate al Laocoonte.  

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