Come viene raffigurato il cibo nell’arte? E con quali significati? Che storie racconta?
Esaurire in un solo articolo una materia così ricca, non è certo possibile, tuttavia proviamo a ripercorrere insieme le principali rappresentazioni del cibo nell’arte, con particolare, ma non esclusiva, attenzione al Cinquecento. Un periodo durante il quale il cibo emerge sempre più: allusivo e subordinato al tema principale rappresentato nella prima metà del secolo, diviene poi il soggetto principale, protagonista di generi e mode destinati a durare a lungo.
Il cibo nelle scene religiose, storiche e mitologiche
Il cibo compare in forme e funzioni diverse nei testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma anche nella mitologia, nella letteratura e nella storia: tutte fonti alle quali da sempre gli artisti si ispirano per rappresentare, secondo codici e stili propri del loro tempo, alimenti e bevande.
Arte, cibo e storia sacra
Partiamo dal Peccato originale, soggetto comune nell’arte medievale e rinascimentale. L’episodio di Adamo ed Eva con il frutto proibito dell’albero della conoscenza è stato raffigurato anche da Albrecht Dürer. Nel 1507 il pittore tedesco dipinge due tavole (oggi conservate al Museo del Prado di Madrid) dove i progenitori biblici appaiono nudi, con ramoscelli di melo in mano. Una varietà botanica che non viene citata esplicitamente dalla Genesi, ma che è stata così interpretata da molti pittori nordici sulla base della parola latina malum, usata per indicare sia il frutto che il male.
Lo si ritrova, tra gli altri, anche nell’omonimo olio su tela del Tintoretto (Galleria dell’Accademia di Venezia) della metà del XVI secolo: qui, Eva appare proprio nell’atto di offrire il pomo ad Adamo che, di spalle allo spettatore, si ritrae titubante.
Banchetti e cene sono un altro tema piuttosto frequente nei testi sacri e, di conseguenza, nell’arte del passato, diventando occasioni per rappresentare anche il cibo.
Il convivio più raffigurato è certamente l’Ultima Cena, della quale si conserva ancora il mirabile affresco che Leonardo Da Vinci realizzò nel 1497 per il convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano. Leonardo sceglie il momento della rivelazione, quando Cristo – al centro della composizione – dichiara di sapere dell’imminente tradimento, causando sconcerto e paura tra gli Apostoli. La tavola è apparecchiata con bicchieri, piatti e coltelli. La pietanza servita, insieme agli eucaristici pane e vino, non è l’agnello pasquale ma il pesce, emblema della penitenza, probabilmente in accordo con la regola benedettina che vietava il consumo di carne di quadrupede. Non mancano però oggetti e gesti simbolici: il sale rovesciato accanto al gomito di Giuda lascia pensare infatti a un’occasione mancata (quella di diffondere la parola del Messia nel mondo); al contrario, le saliere d’argento piene vicine a Giacomo minore e a Matteo avrebbero esattamente il valore opposto; infine, il coltello impugnato da Pietro alle spalle di Giuda anticipa lo scontro armato tra l’Apostolo e gli assalitori del Messia nell’Orto degli olivi.
Esplicito riferimento al Cenacolo è la Cena in Emmaus, luogo scelto da Cristo per mostrarsi risorto a due viandanti ripetendo i gesti dell’Ultima Cena: prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo distribuisce tra i suoi ignari compagni di viaggio, scomparendo subito dopo. Nell’omonima tela del 1525 conservata alla Galleria degli Uffizi di Firenze, Pontormo racconta la rivelazione in una composizione tutta centrata sulla figura di Cristo. Pane e vino sono gli unici alimenti presenti, ma è interessante notare anche il piatto metallico che rimanda alla patena, il piatto dell’eucarestia, e all’usanza rinascimentale di condividere il piatto di portata tra tutti i commensali.
Impossibile non citare, parlando di un simile soggetto, la Cena in Emmaus di Caravaggio dell’inizio del XVII secolo, oggi alla National Gallery di Londra. La mensa è decisamente più ricca rispetto a quella del Pontormo.
Tra gli alimenti inseriti dal Merisi, estranei alle fonti, è visibile anche una canestra di frutta: citazione – nelle sembianze e nell’artificio della sporgenza dal piano d’appoggio – della sua precedente Canestra di frutta, realizzata sul finire del Cinquecento (Pinacoteca Ambrosiana, Milano). La Canestra rappresenta l’unica natura morta nota nella produzione dell’artista, antesignana di un genere che si affermerà di lì in avanti: la natura morta.
Rievocazioni mitologiche e storiche
La mitologia greca e latina, così come alcune vicende storiche, ha avuto particolare fortuna tra gli artisti del Rinascimento. Questo vale, ad esempio, per il Banchetto degli dei, riferito alle nozze tra Peleo e Teti o Amore e Psiche.
È questo il soggetto raffigurato nel 1528 da Giulio Romano a Palazzo Te (Mantova), nella camera di Amore e Psiche. La scena si divide sulle due pareti, meridionale e occidentale, della stanza. Un affresco rappresenta il festeggiamento degli dei tra i quali sono riconoscibili Vulcano, Apollo, Dioniso, Amore e Psiche sdraiati su un lettuccio, e Cerere. Nell’altro è invece dipinto il banchetto rustico organizzato dai satiri in onore degli sposi: contraltare terreno dell’amore elevato, divino della prima parete. Stoviglie, canestre di frutta, festoni concorrono a movimentare entrambe le scene trasmettendo l’idea di una vivace abbondanza, pur in assenza di pietanze vere e proprie.
Motivo apprezzato a partire dal Manierismo in poi, il Banchetto di Cleopatra coniuga il gusto per la teatralità tipico del Sei-Settecento con diversi aspetti seduttivi, tra i quali la magnificenza della corte, la bellezza leggendaria della regina e, ovviamente, il fascino del suo gesto estremo. Lo si vede bene nella grande tela realizzata all’inizio del XVIII secolo da Francesco Trevisani per Francesco Spada e tuttora conservata presso Palazzo Spada a Roma. Le rarità gastronomiche proposte da Marcantonio sono presentate nelle argenterie e sul vassoio di frutta visibile in secondo piano. Ma il vero protagonista dell’opera è l’atto compiuto dalla sovrana che con fare leggiadro e aria risoluta, scioglie il suo orecchino di perle nel bicchiere d’aceto, prima di berlo e chiudere così la contesa.
Se fino a qui il cibo ha prevalentemente un carattere allegorico, decorativo o comunque secondario rispetto al soggetto principale, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, assistiamo allo sviluppo di due generi – fortunati e duraturi nel tempo – nei quali le vivande la fanno da padrone: la pittura di genere e la natura morta.
Pittura di genere e natura morta
Nell’Olanda della fine del XVI secolo e in altri paesi protestanti, vengono bandite le immagini a soggetto sacro dalle chiese. È un mutamento radicale, gli artisti si trovano d’improvviso orfani del loro principale committente. In parallelo però, l’affermarsi di una borghesia mercantile ricca e desiderosa di possedere arte e oggetti preziosi diviene l’occasione per nuovi acquirenti e nuovi soggetti. La pittura di genere riflette proprio questo cambiamento: usanze, mode e abitudini del tempo sono rappresentate in accordo con la sensibilità della nuova committenza. Ecco allora proliferare, nelle Fiandre e in Italia, scene di vita domestica, di mercato, di bottega, di cucina, anche con toni grotteschi o lascivi. Il cibo, spesso eccessivo, ricorda infatti la natura effimera dei piaceri terreni. Ne sono un esempio le serie del cremonese Vincenzo Campi realizzate per la sala da pranzo del castello di Kirchheim, su commissione del banchiere Hans Fugger intorno al 1580, delle quali fa parte anche La fruttivendola, che mette in mostra una inedita opulenza vegetale. Di segno completamente opposto il nucleo di tele dedicato alla macelleria di Annibale Carracci (Grande Macelleria alla Christ Church Gallery, Oxford e Piccola macelleria, al Kimbell Art Museum, in Texas) risalente agli stessi anni: figure rozze e carcasse appese suscitano il disgusto di chi le guarda, in aperto contrasto con la tendenza manierista della ricerca del bello.
La fine del XVI secolo coincide anche con la nascita di quella che (nel XIX secolo) verrà poi definita natura morta. Fiori, frutta, strumenti musicali, oggetti inanimati: la natura morta comprende una grande varietà di soggetti, tra i quali il cibo fa parte in modo non sempre esclusivo. Tavole imbandite di stoviglie, dessert, cacciagione, frutta e formaggi sono alcuni dei temi ricorrenti dei dipinti seicenteschi dei Paesi Bassi. In Spagna si predilige invece una composizione in spazi ristretti e dimessi (da cui il nome del genere: bodegon, ovvero cantina, osteria), si veda ad esempio la Natura morta di Velázquez agli Uffizi di Firenze; mentre in Italia – a Roma, a Firenze e a Napoli – questo genere subisce la grande influenza di Caravaggio e dell’illustrazione scientifica di scuola bolognese.
Del Merisi abbiamo già citato la Canestra di frutta, ma è doveroso ricordare il Ragazzo con la canestra di frutta (1593-1594, Galleria Borghese, Roma) e il di poco successivo Bacco, agli Uffizi, nel quale la meticolosa rappresentazione della frutta accompagna il virtuosismo illusionistico della coppa di vino.
Infine, una personalità femminile: Giovanna Garzoni che con tratto delicato e fine crea composizioni armoniche e di piccolo formato. Sono suoi il Piatto con ciliegie, con due fichi e due nespole sul ripiano (1640-1650) e Il vecchio Artimino (1649), entrambi a Palazzo Pitti, a Firenze. Quest’ultimo fu commissionato da Don Lorenzo de’ Medici e rappresenta una natura morta sui generis proprio per la presenza del vecchio Artimino. In primo piano, cardi, cedri, uova, meloni, mele, uva, ciliegie, salame e prosciutto, pecorino, fave e un fiasco di vino, oltre al carciofo, ortaggio toscano e vanto mediceo, perché importato da Caterina de’ Medici – che ne era ghiotta – alla corte francese.
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Per ultimo ma non ultimo, Giuseppe Arcimboldo. Attivo alla corte Asburgica nella seconda metà del XVI secolo, Arcimboldo divenne famoso per le sue immagini bizzarre composte di cibo e naturalia in genere. Figure antropomorfe, simili a ritratti, che presero il nome di capricci e che servivano a celebrare l’universalità del committente.
Basta citare opere come Le Déjeuner sur l’herbe di Edouard Manet (1863, Musée d’Orsay, Parigi) o I mangiatori di patate di Vincent van Gogh (1885, Van Gogh Museum, Amsterdam) o persino le Campbell soup di Andy Warhol per intuire quanto i generi sopra descritti siano stati influenti anche per gli artisti successivi.
Ancora oggi l’alimentazione occupa gran parte dei nostri interessi e del nostro intrattenimento. Se c’è una cosa che questo breve excursus dimostra, è che da sempre il cibo è sulla bocca – e sul pennello – di tutti.