Autore, soggetto, epoca sono informazioni fondamentali per capire e apprezzare un’opera d’arte. A queste tre, ne dobbiamo aggiungere una quarta: la tecnica. Non basta dire pittura o scultura, ma è importante definire il tipo di pittura e il tipo di scultura: con quali materiali, su quali supporti, con quali strumenti. La tecnica esecutiva definisce l’esito dell’opera e rivela l’abilità dell’artista.
Questo è particolarmente vero per la pittura a olio, che – a partire dal Rinascimento – rivoluziona la storia dell’arte.
All’inizio del capitolo XXI delle sue Vite, Giorgio Vasari esprime tutto il suo entusiasmo per questa tecnica, nata oltre mezzo secolo prima: “Fu una bellissima invenzione et una gran commodità all’arte della pittura il trovare il colorito a olio […].” scrive, “Questa maniera di colorire accende più i colori, né altro bisogna che diligenza et amore, perché l’olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e dilicato e di unione e sfumata maniera più facile che li altri; e mentre che fresco si lavora, i colori si mescolano e si uniscono l’uno con l’altro più facilmente; et insomma gli artefici danno in questo modo bellissima grazia e vivacità e gagliardezza alle figure loro, talmente che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure e che ell’eschino della tavola, e massimamente quando elle sono continovate di buono disegno con invenzione e bella maniera.”
Vediamo allora quando nasce e come si sviluppa la pittura a olio e con quali conseguenze.
In cosa consiste la pittura a olio e come si distingue dalla tempera
Prima di addentrarci nella storia della pittura a olio è importante definire in cosa consiste e come si distingue rispetto ad altre tecniche apparentemente simili come la pittura a tempera.
Ogni metodologia pittorica consta di tre parti: il colore, il liquido per farli aderire al supporto e il supporto stesso.
Nella pittura a olio, i pigmenti vengono uniti a sostanze grasse come olio di noce, di lino o di papavero che permettono di ottenere una materia pesante e vischiosa. Prima di essere utilizzati, gli oli devono essere depurati dalle mucillagini – causa di ingiallimento – e deacidificati, per impedire ai colori bianco, verde e azzurro di opacizzarsi.
Per ottenere tinte trasparenti e controllare la velocità di essiccazione, si aggiungono oli essenziali di origine vegetale, complementari e diluenti, come l’essenza di trementina (ricavata dalla distillazione delle resine delle conifere), oppure l’olio di lavanda, spigo o rosmarino.
I supporti possono essere di varia natura, dal legno, al metallo, alla stoffa. Vedremo tra poco come la storia della pittura a olio si intrecci con quella della tela, base prediletta dei dipinti Quattro e soprattutto Cinquecenteschi.
La pittura a tempera
Nell’accezione contemporanea, la tempera (da “temperare” che significa stemperare i colori o mescolarli nella giusta misura) prevede l’utilizzo di acqua e di uovo, latte, lattice di fico, colle, gomme, cere, o altra sostanza – escluso l’olio – come agglutinante.
Tuttavia, questa informazione non è del tutto esatta, poiché anche nella pittura a tempera di matrice storica è possibile riscontrare alcuni composti oleosi, lo stesso Vasari usa questo termine per impasti a olio e a vernice.
La tempera può infatti essere distinta in due tipologie:
- la tempera magra, composta di acqua e colle vegetali o animali, è sensibile all’umidità e tende a schiarirsi quando si asciuga;
- la tempera grassa prevede l’uso prevalente di oli, resine e gomme e rende il colore più resistente.
L’olio come legante dei colori era usato fin dall’antichità e viene menzionato sia nel trattato di Teofilo del 1100 circa, sia nel Libro dell’Arte di Cennino Cennini della metà del Trecento. Alcuni maestri italiani del Rinascimento usavano tecniche miste, con colori olio-resinosi applicati in sottili velature sopra la tempera.
Le superfici di applicazione – che dovevano essere adeguatamente preparate per ricevere il colore attraverso la cosiddetta imprimitura – potevano essere molteplici: legno, metallo, pietre, cartone, tela o carta. Per molto tempo il supporto più diffuso fu il legno: i dipinti in epoca medievale venivano realizzati su tavole lignee dipinte a tempera. La Primavera di Botticelli è un esempio mirabile di questa tecnica.
Nascita della pittura a olio: dai fiamminghi all’Italia del Rinascimento
Dal Quattrocento in poi la pittura a olio si diffuse dalle regioni del Nord Europa fino in Italia, dove si affermò grandemente soppiantando l’allora popolare pittura a tempera.
Tra i primi e principali esecutori di questa rinnovata tecnica va ricordato il fiammingo Jan Van Eyck (1390-1441), al quale viene spesso erroneamente attribuita la paternità. È però vero che Van Eyck fece largo uso di impasti a base olio e resine a caldo, distinguendosi per abilità e sistematicità di applicazione.
L’Uomo con turbante rosso del 1433, oggi conservato presso la National Gallery di Londra, testimonia la maestria del pittore e la sua capacità di riprodurre effetti materici stupefacenti.
La pittura a olio si impose principalmente per la grande possibilità di resa e la libertà di utilizzo che lasciava agli artisti, dallo spessore della materia pittorica fino alla modalità di stesura – con pennellate fluide e piene, ma anche con spatole o direttamente con l’uso delle dita (come usava fare, ad esempio, Tiziano)! A seconda della quantità e qualità degli oli essenziali aggiunti, era inoltre possibile determinare la velocità di esecuzione: più lenta per ottenere un’ampia varietà di toni dello stesso colore, oppure più veloce per accostare colori diversi nella rappresentazione dei soggetti.
La preparazione poteva dunque differire da un artista all’altro. Antonello da Messina (1430-1479), considerato il padre italiano di questa tecnica, preparava la tavola con una patina di gesso duro, poi procedeva con uno strato di olio cotto e quindi stendeva i colori, aggiungendo altro olio per ottenere una leggera fusione cromatica. Lasciava quindi essiccare e portava a compimento con essenza di trementina.
Leonardo da Vinci (1452-1519) seguiva invece un procedimento diverso: nella sua Sant’Anna, la Vergine e il Bambino e nella Gioconda – entrambe al Museo del Louvre – ha applicato una base blu in alto, rossa in basso e in terra d’ambra per i volti. Quest’uso differenziato delle basi dipendeva dal colore, chiaro o scuro, che aveva scelto di utilizzare successivamente. Leonardo lavorava poi applicando sottili velature a olio di noce cotto che davano al dipinto una particolare luminosità. Nei suoi dipinti non sono infatti visibili tracce di pennellate.
Le opere citate sono esempi squisiti di oli su tavola. Tuttavia, lo dicevamo poco sopra, la popolarità della pittura a olio si deve anche alla diffusione di un supporto nuovo che, dalla fine del Cinquecento e per i secoli seguenti, contribuirà a rendere questa tecnica pressoché regina: la tela.
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La tela come supporto d’eccellenza per la pittura a olio
L’uso della tela libera su telaio nacque in Veneto alla fine del Quattrocento e permetteva di correggere cedimenti e stiramenti della superficie con la stesura delle tele di lino o di canapa su appositi telai mobili. La tela veniva preparata attraverso una leggera imprimitura: una sottile mano di colla d’amido e zucchero, lasciata asciugare per un giorno e poi, a distanza di qualche ora, ripassata con un doppio strato di gesso e colla, infine raschiata con la spatola. Il risultato era un fondo liscio bianco sul quale, per renderlo più naturale, era possibile applicare una tinta rossa o bruna, oppure di una tonalità che anticipava i colori scelti dall’artista come abbiamo visto per Leonardo. Anche Tiziano (1485/1490 – 1576) e Velazquez (1599 – 1660) adottavano preparazioni diverse a seconda delle zone e delle cromie da dipingere.
Sulla tela – meno rigida della tavola lignea – la pennellata diventava più sciolta, fluida, soprattutto se realizzata ad olio: questa tecnica lasciava infatti un’ampia libertà di manovra, dai piccoli tocchi alle campiture ampie, dalle masse di colore alla definizione dei dettagli. L’incontro tra procedimento e supporto non poteva essere più felice.
La pittura su tela, di per sé, non era una novità assoluta come confermano anche i “panni” e le “cortine” (dipinti su tessuto e tendaggi) citati in numerosi inventari delle collezioni medicee del Quattrocento (dei quali, purtroppo, non ci rimane alcun esemplare). La novità, però, era l’uso di questo materiale come base per dipinti a olio, anche di grandi dimensioni.
I teleri furono inventati per il clima lagunare, umido e salmastro che mal si conciliava con gli affreschi, che finivano per rovinarsi. Questi supporti di notevoli dimensioni e composti di più tele cucite insieme, erano fissati su un telaio accostato alla parete, precedentemente trattata contro l’umidità. Così facendo, il dipinto rimaneva scostato dal muro ed era quindi meno soggetto agli agenti atmosferici e ai danni che ne derivavano, permettendo di decorare interi saloni senza doverli affrescare.
Non solo, i vantaggi della tela furono presto evidenti: a differenza delle tavole lignee, che richiedevano molti passaggi prima di poter essere utilizzate, la preparazione della tela era tutto sommato semplice e veloce. Il che la rendeva anche più economica. Ma soprattutto le tele erano più leggere e facili da trasportare: una caratteristica che contribuì grandemente alla loro mobilità – potevano essere spedite con imballi più semplici e maneggevoli – e alla mobilità degli artisti, che potevano spostarsi agilmente con pochi strumenti. L’adozione della tela portò a un fiorire delle committenze, si potevano infatti finalmente ingaggiare artisti anche da molto lontano. In epoca Barocca, molte decorazioni furono realizzate a distanza, poi rifinite in loco prima di essere apposte a pareti e soffitti.
Jacopo Bellini (1396-1470) fu uno dei primi a usare la tela per cicli pittorici di vaste dimensioni e da allora molti seguirono il suo esempio. Mantegna (1431-1506), in contatto con la cultura veneta, ne apprese la tecnica e la ripropose, contribuendo alla sua diffusione.
Caravaggio (1571-1610) utilizzò sempre questa tecnica, anche per la realizzazione di grandi composizioni, preferendola all’affresco che non gli consentiva di ottenere il contrasto tra oscurità e luce desiderato.
La tavolozza: strumento pratico e teorico
Con l’affermarsi della pittura a olio fu necessario ricorrere anche a un altro strumento di lavoro, già noto ma fino ad allora non codificato: la tavolozza.
L’azione legante dell’olio consentiva infatti di trasformare i pigmenti in una pasta densa piuttosto malleabile e la tavolozza permetteva di mescolarne i colori, ottenendo tinte e gradazioni a piacere. Con l’introduzione della tavolozza, era ora possibile ottenere variazioni, tonalità e livelli di luminosità e trasparenza diversi con più agilità.
A partire dal XVI secolo, dunque, la pratica di organizzare e mescolare i colori prima di stenderli sulla tela si affermò come necessità pratica e guida mentale, capace di anticipare e rivelare le intenzioni del pittore.
Secondo Vasari, il pittore Lorenzo Di Credi (1456/1460 – 1536) operava con estrema diligenza preparando tra le venticinque e le trenta tinte sulla tavolozza, dalla più chiara alla più scura, e usando per ciascuna un pennello diverso. Pare invece che Rembrandt (1606-1669) usasse tavolozze distinte per ogni area del dipinto secondo un ordine che mantenne per tutta la vita.
Agli inizi del Seicento pittori e teorici si confrontarono a lungo sull’uso e l’organizzazione della tavolozza e, ancora all’epoca di Cézanne (1839-1906), questa era oggetto di riflessione e discussione.
La storia e la teoria del colore in pittura devono molto a questo strumento iconico.
Risvolti sociali della pittura a olio
Finora abbiamo visto le conseguenze pratiche e artistiche dell’utilizzo della pittura a olio su tela e della sua inarrestabile diffusione. Come tutte le grandi invenzioni, questa tecnica ebbe risvolti anche sul piano sociale, contribuendo a modificare la figura dell’artista stesso.
Il processo di preparazione della tela, più svelto di quello delle tavole lignee, la maggiore disponibilità di colori e il costo ridotto delle materie prime liberarono i pittori di diversi passaggi artigianali, valorizzando invece il momento creativo e lo stile personale. L’attenzione si spostò sempre più dalla fattura alle fattezze del dipinto, che guadagna fama non più dall’uso di materiali preziosi – come oro e lapislazzuli – ma dal prestigio dell’autore stesso, ora ancora più capace di raggiungere effetti e risultati mai visti prima.
Senza questa tecnica e i suoi strumenti (la tela e la tavolozza in primis), è probabile che la storia dell’arte e dei suoi protagonisti per come la conosciamo oggi non sarebbe esistita.