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Il Ratto delle Sabine del Giambologna, massima espressione del Manierismo in scultura

Il Ratto delle Sabine del Giambologna, massima espressione del Manierismo in scultura

ratto delle sabine giambologna
ratto delle sabine giambologna

Sotto l’arcata destra di quel monumentale museo a cielo aperto che è la Loggia dei Lanzi, a Firenze, spicca un gruppo scultoreo dal dinamismo e dall’intensità espressiva senza pari. Realizzato in marmo nel 1582, il Ratto delle Sabine di Giambologna sorprende ancora oggi per le dimensioni colossali e l’audace composizione: tre corpi nudi si intrecciano in una scena carica di violenza e sensualità
Un’opera eloquente, nata dall’ingegno e dall’ambizione di uno dei protagonisti del Manierismo: sveliamone insieme storia e ambizione.

Soggetto e iconografia

Il Ratto delle Sabine (o Ratto della Sabina come è anche chiamato), raffigura il rapimento di una fanciulla da parte di un giovane e possente uomo. La donna, nuda e indifesa, si divincola cercando di sfuggire alla presa, le labbra schiuse e il volto congelato in un’espressione di muta disperazione. Ai piedi della coppia, un’altra figura maschile più matura osserva angosciata l’accaduto, il corpo sovrastato dall’assalitore e il braccio sollevato, invano, in un gesto di difesa. 
Secondo la leggenda, gli antichi fondatori di Roma rapirono le donne dei Sabini, popolazione vicina, per farne le loro spose. L’opera del Giambologna rappresenterebbe proprio questo episodio, ma il condizionale qui è d’obbligo poiché, – stando alle fonti, il titolo fu assegnato solo a lavoro quasi terminato. 
Pare infatti che sia stato l’autore e critico d’arte Raffaello Borghini a suggerirlo durante una visita alla bottega dell’artista. Prima di allora, il gruppo era privo di un tema definito (era la scena di un rapimento, ma non di un rapimento in particolare) e lo stesso Francesco I de’ Medici – che lo acquistò – si era interrogato sull’identità del soggetto e la sua collocazione.

il ratto delle sabine giambologna loggia dei lanzi
Ratto delle Sabine, Giambologna

In una lettera al mecenate Ottavio Farnese, duca di Parma, Giambologna scrive che il suo modello in bronzo del Ratto (1579, Napoli, Museo di Capodimonte) era stato scelto “per dar campo alla saggezza et studio dell’arte”. Si trattava, in altre parole, di una prova di abilità e virtuosismo tecnico. Possiamo dunque immaginare che gli stessi motivi spinsero l’artista a realizzare il successivo lavoro in marmo: senza committenti, Giambologna lo aveva eseguito con il solo intento di eguagliare e superare il maestro indiscusso – fino ad allora – di quest’arte, Michelangelo

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Ratto della Sabina, Giambologna

Il confronto con Michelangelo

Giambologna nasce nel 1529 a Douai nel Ducato delle Fiandre. A soli vent’anni intraprende un viaggio di formazione in Italia, recandosi a Roma per studiare da vicino le sculture classiche e soprattutto le opere del suo idolo, il Buonarroti. 
Si narra persino che, durante la permanenza romana, i due si incontrarono. Giambologna si era recato dall’ormai ottantenne Michelangelo per mostrargli un modello in cera a cui aveva lavorato alacremente. Quando lo vide, il toscano – famoso per i suoi modi bruschi – lo prese, lo schiacciò e lo rifece, migliorandolo. Quindi liquidò il giovane fiammingo con queste parole: “Or va prima ad imparare a bozzare, e poi a finire”. Una storia apocrifa, probabilmente inventata, che però testimonia la brama di eccellere del Giambologna. E che potrebbe anche spiegare perché, di tutte le sue creazioni, ci siano giunti numerosi modelli ma nessun disegno preparatore: che avesse imparato la lezione al punto da rinunciare a qualunque riduzione su carta pur di impratichirsi direttamente con la materia?  

Comunque sia andata, dopo due anni Giambologna si trasferisce a Firenze dove entra in contatto con la potente famiglia dei Medici e con la vivace cerchia di artisti presenti in città. 
È qui che, pochi anni dopo, gli si presenta la possibilità di confrontarsi nuovamente con l’ammirato maestro. 
Il destino vuole che nel 1560 venga indetto un concorso per la realizzazione della statua del Nettuno destinata a decorare la nuova fontana di Piazza della Signoria, posta proprio accanto al David di Michelangelo. Un’occasione irresistibile: Giambologna partecipa e altrettanto fanno Benvenuto Cellini, Vincenzo Danti e Bartolomeo Ammannati. Purtroppo per lui, sarà l’Ammannati ad aggiudicarsi il progetto, realizzando la scultura del cosiddetto “Biancone” come venne chiamato con spirito caustico dai fiorentini dell’epoca. Il modello del Giambologna, lodato per le sue qualità, venne probabilmente riutilizzato per la figura di Oceano della fontana del Giardino di Boboli, oggi al Museo Nazionale del Bargello

david michelangelo
David, Michelangelo

Ma per Giambologna la sfida ideale continua e quando riceve l’incarico di realizzare Sansone che atterra Filisteo (1561-62, Londra, Victoria & Albert Museum), ancora una volta rivolge lo sguardo a Michelangelo. Il Buonarroti aveva infatti realizzato un soggetto analogo, conosciuto oggi solo grazie a numerosi bozzetti, oltre a una serie di lottatori fatti per la tomba di papa Giulio II.

sansone che atterra un filisteo giambologna
Sansone che atterra Filisteo, Giambologna

In uno dei bozzetti sopracitati, conservato al Bargello di Firenze, Michelangelo aveva introdotto un terzo personaggio, un uomo sdraiato – forse morto –  appena visibile sul fondo. Questa variazione, apparentemente marginale, diventa la chiave di lettura per comprendere la svolta apportata dal Ratto delle Sabine che riprende ed evolve lo schema michelangiolesco. 

sansone uccide i filistei michelangelo
Sansone uccide i Filistei, Michelangelo

Fonti d’ispirazione e conquiste stilistiche del Ratto delle Sabine di Giambologna

Il Ratto delle Sabine è il primo gruppo scultoreo a non avere un punto di vista privilegiato, un fronte. Per comprenderlo e apprezzarlo appieno, il visitatore è costretto a girargli attorno e scoprire i molteplici intrecci dell’articolata composizione. Ardita non solo per l’altezza che raggiunge (oltre 4 metri) ma anche per il peso. Non è impresa banale garantire la stabilità di una tale opera in marmo, senza comprometterne l’azzardato slancio. Ed è così che Giambologna inserisce l’uomo barbuto sul basamento, assente nelle precedenti in cera (oggi al V&A di Londra) e in quella in bronzo (ma già presente sul modello a grandezza reale esposto alla Galleria dell’Accademia di Firenze). 
Una scelta, questa, dettata da necessità ma anche dalla voglia di superare l’ingombrante predecessore: a differenza della figura appiattita di Michelangelo, quella di Giambologna si solleva da terra, è viva e prende parte alla scena. Una figura che cambia il gioco. Il Ratto, da allora, incarna l’espressione massima della Maniera e delle sue conquiste: la disposizione piramidale, la figura serpentinata dei corpi che si torcono a spirale su se stessi, la moltiplicazione del movimento in tutte e tre le figure. 

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Toro Farnese

Ma non è solo Michelangelo ad essere fonte di ispirazione di questo capolavoro manierista. Tra le altre, il Toro Farnese, copia in marmo di un originale greco, rinvenuta a Roma qualche tempo prima (III sec. d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale). Celebrato dal pittore Federico Zuccari (1539-1609) come “l’opera più notevole e meravigliosa uscita dallo scalpello degli antichi” insieme al Laocoonte, probabilmente non sfuggì al Giambologna durante il suo soggiorno capitolino. L’uomo che stringe la Sabina ricalca infatti quasi alla lettera la posa del giovane che atterra il toro, ad eccezione delle braccia, alzate in aria per amplificare la forza drammatica del rapimento. 

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Laocoonte

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Il 14 gennaio del 1583 il Ratto delle Sabine, dopo aver preso il posto della Giuditta e Oloferne di Donatello nella loggia dei Lanzi, veniva clamorosamente scoperto e mostrato alla cittadinanza.
Il tanto ambito confronto con Michelangelo e il suo David, si era finalmente compiuto. “Ma quello che fu notabile”, riferiscono le fonti, “che fra tanto popolo che le vidde [le sculture del Ratto], non si trovò alcuni che le tacciasse in parte alcuna, cosa che in Firenze suole avvenire di rado”. 
Nemmeno i fiorentini – di cui era ben noto lo spirito critico – ebbero nulla da recriminare all’opera che, da allora, ricorda ai visitatori la grandezza di quel Jean de Boulogne detto Giambologna. 

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