Il corpo umano è da sempre oggetto di attenzione degli artisti: le rappresentazioni della nudità sono presenti fin dall’antichità, ma il loro significato cambia con il mutare del gusto, della sensibilità e dei valori sociali. Per apprezzare meglio questa evoluzione, abbiamo scelto cinque opere d’arte nelle quali il nudo è protagonista e rivela, con la sua presenza esplicita, a volte persino sfacciata, i canoni estetici e culturali del tempo.
Il nudo nell’arte greca e romana
Per i Greci del V secolo la nudità era prerogativa divina, dunque inviolabile, oppure maschile, legata soprattutto all’esercizio fisico. I gymnasia, le palestre dell’antichità, erano i luoghi dove i giovani uomini si allenavano completamente svestiti (la radice della parola è la stessa di gymnos che significa nudo, in greco). Le rappresentazioni artistiche di questo periodo rispettano questa convenzione sociale che peraltro alla bellezza fisica associava anche una bontà morale: la perfezione del corpo era simbolo di giovinezza, forza, virtù. Ne sono un esempio i kouroi e le korai: statue monumentali con un’impostazione iconografica fissa, idealizzata.

Con il tempo, la rigidità di questo schema scultoreo si allenta. I corpi assumono pose più morbide, “si muovono” nello spazio, ma sempre regolati da principi compositivi precisi come la simmetria, l’armonia delle proporzioni, l’equilibrio: è l’arte classica propriamente detta, della quale sono autori celebri Policleto e Fidia.
Una visione unitaria e divina della bellezza che si sgretola con le conquiste macedoni e il dominio di Alessandro Magno. Da questo momento in poi, la nudità diventa sempre più fonte di compiacimento estetico in quanto tale, non più associata solo a qualità morali superiori. Non a caso, anche il corpo femminile diventa oggetto d’arte e di ammirazione.
L’Afrodite cnidia e il Laocoonte
L’Afrodite cnidia di Prassitele – oggi perduta, ma nota tramite diverse copie successive – è la dimostrazione di questo progressivo mutamento del sentire. Nelle repliche giunte fino a noi, la dea si accinge a entrare in acqua, con la mano sinistra si toglie la veste mentre con la destra si copre il pube. Un gesto che già di per sé sottintende la presenza di uno sguardo esterno. L’inedita sinuosità del corpo, la morbidezza quasi pittorica delle superfici non lasciano indifferenti i contemporanei. Così scrive Plinio nel suo Naturalis Historia: “Si racconta che un uomo, colto da amore per la statua, si nascose durante la notte, si unì alla statua e lasciò una macchia come traccia del suo desiderio”.
La fortuna di questa scultura è tale da dare origine a un modello compositivo conosciuto come Venere pudica della quale sopravvivono varie versioni come la Venere capitolina (copia romana di un originale greco del II sec. a.C., Roma, Musei Capitolini) e la Venere de’ Medici (II sec. a.C. – I sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi, sostituita – in epoca napoleonica – dalla Venere Italica, realizzata tra il 1804 e il 1812 da Antonio Canova, e oggi sempre agli Uffizi).

Opere che testimoniano il sopraggiunto spirito ellennistico, caratterizzato dall’ormai totale umanizzazione dell’arte, che espone il corpo e le sue emozioni in modo palese e coinvolgente sia nei suoi tratti più sensuali, come nelle Veneri appena citate, che drammatici, come nel celebre Laocoonte (I secolo a.C., Città del Vaticano, Musei Vaticani). Il nudo dei corpi contratti nella terribile morsa delle serpi, le espressioni di dolore e terrore raccontano con violenza manifesta il pathos della tragedia in quello che divenne il gruppo scultoreo antico più famoso del Rinascimento.

Il Medioevo e il Primo Rinascimento
Con la diffusione del cristianesimo dal V secolo d.C. in poi, la nudità assume una valenza simbolica e asessuata, legata alla morale e agli insegnamenti della dottrina.
Sono nudi Adamo ed Eva, che si mostrano senza vergogna prima di commettere il peccato, ed è nudo Cristo nelle rappresentazioni del Battesimo – prima ancora che in quelle della Crocifissione – come si vede nel mosaico del Battistero degli Ariani di Ravenna.

I loro corpi però sono descritti in modo schematico, elementare, e nulla hanno a che fare con la naturalezza classica, per la quale bisognerà attendere Nicola e Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio, Pietro Cavallini e Giotto.
Anche l’arte gotica promuove un’asettica geometria anatomica – che non deve lasciare spazio alla tentazione dello sguardo – che si tratti della rappresentazione dell’Eden, della Passione di Cristo o del Giudizio Universale.
L’aria però sta per cambiare e il recupero dell’arte greca e romana è ormai prossimo: artisti e letterati tornano con insistenza sulle opere antiche e su quell’armonia delle forme negata dal cristianesimo medievale. Se Brunelleschi inaugura con il suo Crocifisso (1410-1415 ca., Firenze, Santa Maria Novella) la tradizione del Cristo nudo in Croce, è l’amico Donatello a fissare un altro traguardo nella storia della nudità in arte.

Il David di Donatello
Realizzato intorno al 1440 e oggi conservato al Museo Nazionale del Bargello di Firenze, il David di Donatello conferma il rinnovato interesse per la sinuosità tipica dell’arte ellenica, per la sua grazia ed equilibrio. Espressione di bellezza, più che di possenza, è il primo nudo in bronzo del Rinascimento e presenta l’eroe biblico come un giovinetto imberbe, elegante e pacato nel suo trionfo contro il gigante Golia. La testa del nemico giace ai suoi piedi, ma egli sembra quasi non curarsene, immortalato in una perfetta posa a chiasmo derivata direttamente dai modelli antichi, che l’artista studiò durante il suo soggiorno a Roma.
Ma questi non furono gli unici oggetti di osservazione di Donatello il quale, stando a quanto riporta il Vasari1 nelle sue Vite: “[…] s’intese de gli ignudi più modernamente che fatto non avevano gli altri maestri inanzi a lui, e scorticò molti uomini per vedere la notomia loro sotto”.
D’altra parte, proprio l’analisi del reale unita all’imitazione del passato diventa materia di riflessione e dibattito tra gli intellettuali dell’epoca, mentre accanto ai soggetti biblici si moltiplicano quelli profani. Gli artisti si cimentano in egual modo con l’agiografia e la mitologia, passando dalla storia dei santi a quella – sempre velata di allegorie – di dei ed eroi antichi. In entrambe, è presente il corpo nudo ormai apertamente guardato e celebrato.

Il Secondo Rinascimento
Il Cinquecento fa del corpo umano, delle sue forme e proporzioni una vera e propria materia di studio, con la quale si confrontano artisti e dotti di ogni tipo, da Leonardo Da Vinci a Giovanni Paolo Lomazzo. In quest’epoca, pittori e scultori guardano all’arte classica ma la rielaborano e la superano sulla scia di conflitti personali, dispute teologiche e contraddizioni sociali.
Il David di Michelangelo
Michelangelo è forse l’autore cinquecentesco che più di tutti ha dato un’interpretazione personale del nudo. Un nudo certamente influenzato dall’antico – è nota l’ammirazione del Buonarroti per il già citato Laocoonte – ma attraversato da passioni reali, massimamente espressivo. Lo vediamo bene nella Pietà del 1499 (Roma, San Pietro) dove il Cristo morto si abbandona alla morte in una posa scomposta e credibile.
E ancora nel suo David (1501, Firenze, Galleria dell’Accademia), che traduce la tensione dell’azione, ancora da compiersi, in una muscolatura definita e contratta, idealizzata e allo stesso tempo umana. Il David di Michelangelo è eroico prima ancora di combattere, lo sguardo concentrato sul nemico, il corpo immortalato in una posa armoniosa ma tesa: è un colosso di marmo che sente le emozioni della carne.
Opere, queste, che prefigurano le soluzioni magistrali raggiunte dal Buonarroti negli affreschi della Cappella Sistina.
La Venere di Tiziano
Luogo di vizio e devozione, Venezia nel Cinquecento è uno dei centri culturali, artistici e mondani più vivaci della Penisola. Qui, il mito diventa la scusa perfetta per dare spazio alla sensualità del corpo, pretesto eccellente per rappresentare l’erotismo.
In questo contesto di malcelata pruderie, non possiamo non ricordare la famosa Venere di Tiziano (1538 ca., Firenze, Galleria degli Uffizi). Dea e sposa o, semplicemente, “la donna ignuda” come la chiamerà il suo committente Guidobaldo Della Rovere duca di Urbino, ammicca allo spettatore, mentre con la mano sinistra nasconde il pube, attirando proprio qui l’attenzione di chi guarda. La potenza erotica del dipinto è tale da destare scandalo ancora nell’Ottocento, quando Mark Twain, in visita agli Uffizi, così ne scrive: “[…] e qui, contro il muro, senza una foglia o un telo che copra, si può vedere il colmo della più folle, più ignobile, più oscena pittura che il mondo possegga – la Venere di Tiziano. […] Senza dubbio è stata dipinta per un bordello ed è stata probabilmente rifiutata poiché si tratta di una cosetta troppo forte”.

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Al di là del giudizio sulla presunta impudicizia del dipinto, è ormai evidente che l’arte italiana del XVI secolo è sempre meno vincolata a motivi iconografici precisi e si esprime, anche attraverso il nudo, per il puro gusto di farlo.
Culmine massimo di questo atteggiamento è Il ratto delle Sabine di Giambologna (1582, Firenze, Loggia dei Lanzi): il gruppo scultoreo nato per pura volontà artistica, senza committenti e senza un tema preciso, al quale verrà attribuito un nome solo dopo essere stato completato.

Eppure di lì a poco, le cose cambieranno ancora: lo spirito della Controriforma, con i suoi veti e le spinte iconoclaste, si diffonde anche in Italia. Il nudo nell’arte sacra viene nascosto (si ricordi, ad esempio, l’opera di Daniele Ricciarelli detto “il Braghettone” sulle opere di Michelangelo) e, qualche decennio dopo, espressamente vietato.
Nonostante questo e altri tentativi successivi di assoggettamento, il nudo non scomparirà mai del tutto, ma si evolve e arriva fino a noi, in forme nuove e aggiornate alla moda e al sentire contemporanei, come dimostrano ancora oggi le opere di Yves Klein, Vanessa Beecroft e David LaChapelle.
1 Artista, architetto e uomo di lettere alla corte dei Medici, Giorgio Vasari (1511-1574), fu anche autore de Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (edito nel 1550 e nel 1568, con aggiunte), opera fondamentale per la storiografia artistica italiana.