Non solo uno dei capolavori del Cinquecento, ma anche tra i dipinti più enigmatici della storia dell’arte. La potenza iconografica della Venere di Urbino di Tiziano è confermata dalla fama conclamata tra gli artisti di ogni tempo, sarà forse per la morbida nudità, la misteriosa identità della giovane e il significato ancora oscuro.
Conservato oggi alla Galleria degli Uffizi, il dipinto rientra senza dubbio tra i buoni motivi per visitare il museo. In questo articolo, ripercorriamo la genesi e l’analisi dell’opera per goderne a pieno la bellezza e la complessità quando la si vedrà dal vivo.
La committenza
Una delle poche cose che sappiamo con certezza della Venere di Urbino è l’anno del suo acquisto, il 1538. Lo attesta la corrispondenza che, in primavera, il suo committente Guidobaldo Della Rovere duca di Urbino scambia con Gian Giacomo Leonardo, ambasciatore di Urbino a Venezia. Nella prima di queste lettere, Guidobaldo dà istruzioni affinché il suo incaricato, Girolamo Fantini, vada a recuperare i due dipinti realizzati per lui da Tiziano: il suo ritratto e “la donna nuda”, come lui stesso appella il dipinto. E si raccomanda che Fantini “non parta per conto alcuno di là senza portarli”. Quanto al pagamento, prosegue il duca, garantisce che verrà effettuato e che se non potrà pensarci lui stesso, sarà sua madre, Eleonora Gonzaga, a saldare il debito con il pittore.
Qualcosa però va storto perché qualche mese dopo il signore di Urbino si trova a scrivere di nuovo all’ambasciatore per intimare la consegna del secondo dipinto, la Venere appunto, promettendo di impegnare qualcosa di suo in cambio. Possiamo supporre infatti che la Gonzaga – madre timorata – avesse acconsentito di buon grado al pagamento per il ritratto del figlio, ma non a quello per la donna nuda. Un soggetto a cui invece Guidobaldo non è intenzionato a rinunciare e che, in maniera a noi sconosciuta, riesce infine ad ottenere.
Dieci anni dopo l’acquisto, la tela fu ammirata nella Guardaroba dei duchi da Giorgio Vasari, che per primo la identificò come una Venere. A Vasari e alla provenienza del quadro dobbiamo infatti il nome dell’opera che oggi si trova alla Galleria degli Uffizi. A seguito delle nozze di Vittoria della Rovere, ultima della casata, con il granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici, questa e altre opere della collezione furono trasferite a Firenze. Per molto tempo la Venere di Urbino rimase esposta nella Tribuna degli Uffizi, accanto alla cosiddetta Venere dei Medici, probabilmente per accostare due diverse interpretazioni dello stesso soggetto: la bellezza classica e ideale della scultura antica e quella sensuale, carnale del dipinto cinquecentesco.
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Analisi della Venere di Tiziano: il soggetto, identità, significato
La carica erotica della donna raffigurata è da subito evidente, tanto che, all’epoca del granduca Cosimo III è giudicata eccessiva e si ricorre a una copertura mobile. Esposta al pubblico, la Venere era però protetta da una tela sovrapposta, dipinta da Carlo Sacconi con l’allegoria dell’Amor Sacro e dell’Amor Profano, che lasciava scoperti solamente la testa e un braccio della donna. Tramite un meccanismo, era possibile sollevare la cortina e rivelare così la nudità integrale. Un escamotage che rimase in funzione fino al 1748 ma che non impedì all’opera di essere, alla fine del Settecento, la più copiata degli Uffizi insieme alla Venere classica e ai dipinti di Raffaello.
La ragione di questo successo è da ricercare nella composizione e nella resa eccellente, oltre che nell’alone di mistero che avvolge l’identità della modella e il significato ultimo del quadro.
Cosa rappresenta la Venere di Urbino
Su un letto sfatto (una coppia di materassi rossi rivestiti da lenzuola bianche stropicciate), si trova sdraiata una giovane donna nuda. La sua figura occupa tutto il primo piano della grande tela (119 x 165 cm), quasi a grandezza naturale. Nella mano destra, vicino al seno, tiene un mazzetto di fiori, probabilmente rose, mentre la sinistra nasconde il pube. Il viso e lo sguardo sono rivolti allo spettatore e sembrano suggerire un invito a partecipare alla scena. Il bracciale con pietre preziose e smalti, la perla scaramazza all’orecchio e l’anello al mignolo sono tutto ciò che indossa. Ai piedi della giovane donna, dorme acciambellato un cagnolino.
Il fondo è diviso in due parti: sulla sinistra, oltre la schiena della giovane, una tenda annodata e una parete scura impediscono lo sguardo, mentre sulla destra si apre l’interno di un ambiente domestico con pareti decorate e una finestra. Nell’angolo della stanza, due ancelle sono impegnate a recuperare le vesti della donna: una in piedi, sorregge un abito sulla spalla, mentre l’altra, piegata e di spalle, rovista all’interno di uno dei cassoni istoriati.
Sul davanzale della finestra si vede, in controluce, una piantina di mirto.
Possibili interpretazioni
Nel corso dei secoli non sono mancate letture critiche divergenti e il significato dell’opera rimane ad oggi oscuro. L’interpretazione più accreditata è che si trattasse di un dono di nozze per celebrare l’unione di Guidobaldo con Giulia da Varano, ritratta anche in un altro dipinto (che non tutti attribuiscono a Tiziano) conservato alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze. Il soggetto sarebbe dunque una giovane che si sta preparando per partecipare al rito del “toccamano”: una tradizione veneziana nella quale le promesse spose esprimevano il proprio consenso alle nozze toccando la mano del futuro consorte.
Il mirto, pianta legata alla dea dell’amore, e il cagnolino sarebbero dunque simboli di costanza e fedeltà coniugale.
Secondo alcuni, però, la successione cronologica mal si concilia con la ragione matrimoniale, dal momento che le nozze tra Guidobaldo e Giulia da Varano si erano svolte quattro anni prima dell’acquisto del dipinto. Tuttavia, il motivo della donna nuda non era del tutto nuovo nelle case patrizie ed era usato in cassoni dipinti con funzione propiziatoria. La raffigurazione di Venere doveva favorire la procreazione e rendere bella la prole con il suo sguardo, o persino facilitare l’eccitazione degli amanti. La dea di Tiziano richiama inoltre il tema iconografico della Venere pudica, ideato da Prassitele alla metà del IV secolo per la sua celebre Afrodite Cnidia e oggetto di numerose reinterpretazioni successive. Gli artisti del Rinascimento, sensibili al fascino dell’archeologia classica, applicarono spesso questo modello iconografico (una mano ai seni e una al pube) alle figure femminili sacre o profane colte nel provare vergogna. Lo conferma, tra tutti, la Venere di Botticelli.
L’identità della Venere
Ma chi era, nella vita vera, la donna immortalata da Tiziano?
I tentativi di identificarla sono stati molti: c’è chi ha pensato si trattasse di un’amante del pittore. E chi – vedendo la somiglianza del cagnetto della Venere con quello del Ritratto di Eleonora Gonzaga, sempre di Tiziano – ha ipotizzato che fosse invece la duchessa di Urbino. Altri ancora hanno avanzato la tesi del medesimo soggetto del Ritratto di gentildonna (noto come La Bella), anch’esso visibile agli Uffizi.
D’altra parte è vero che i monili della Venere sono pressapoco identici a quelli di altre dame del pittore cadorino e anche il cane, come soggetto, è tra quelli più ricorrenti della sua pittura (ne dipinse oltre trenta!). Per quanto significative, non si tratta quindi di prove schiaccianti per la ricostruzione anagrafica della donna.
In ogni caso, ciò che colpisce del dipinto è il prototipo di femminilità promosso da Tiziano, in netto contrasto con quello sviluppato nello stesso periodo da Michelangelo.
Di quest’ultimo, il poeta e intellettuale Pietro Aretino scrisse che era solito apporre “nel corpo di femmina, i muscoli del maschio”. In effetti le donne dell’uno e dell’altro non potrebbero essere più diverse: carnosa, morbida, sensuale la Venere del Vecellio; atletiche, solide e scultoree quelle del Buonarroti. Un confronto tra due modelli che si protrasse, aspro, anche nelle epoche successive.
Vasari riporta persino un incontro, probabilmente inventato, avvenuto tra i due rivali nello studio di Tiziano. Secondo lo storico, durante la visita Michelangelo pronunciò queste parole: “era un peccato che a Venezia non s’imparasse da principio a disegnare bene, e che non avessono que’ pittori miglior modo nello studio”. Un discredito che non fu condiviso da tutti se, ancora nel XX secolo, la Venere di Urbino era oggetto di citazioni più o meno esplicite.
Oltre la Venere di Urbino: antecedenti ed eredità
Il tema del nudo reclino non è un’invenzione di Tiziano. Durante i suoi anni romani, il pittore ebbe probabilmente modo di vederne esempi antichi romani, etruschi e greci.
Nella ricostruzione dei precedenti della Venere non possiamo non menzionare la Venere dormiente di Giorgione, nota anche con il nome di Venere di Dresda, dal luogo in cui è conservata oggi, la Gemäldegalerie della città. Iniziata da Giorgione fu terminata nel 1510 circa anche con l’aiuto di Tiziano, suo collaboratore, ma lo stato di conservazione del dipinto – sottoposto negli anni a numerosi interventi di restauro – non ci permette di distinguere con esattezza quali parti siano state dipinte da quale artista. La rassomiglianza è palese, pur con qualche sostanziale differenza: la Venere di Giorgione è infatti assopita, distesa su un giaciglio nel mezzo di un paesaggio aperto, la mano sinistra al pube e la destra a sorreggere la testa.
Quella di Tiziano, lo abbiamo visto, è invece sveglia, ammiccante, e inserita in un contesto reale: un interno di una tipica casa veneziana. La Venere di Urbino rinvia espressamente alla Dormiente, ma cambia segno: dalla purezza idealizzata alla sensualità invitante.
Molti artisti successivi si sono rifatti all’iconografia e più in generale al tema della Venere, con richiami e omaggi declinati a seconda dell’epoca e dello stile personale.
Il Seicento è connotato da un’estremizzazione delle forme, con il corpo femminile che si dispone in pose sempre più ardite: dalla Venere e Cupido di Guido Reni, alla Cleopatra di Artemisia Gentileschi, alla Venere Rokeby di Diego Velázquez, dove la dea si presenta di schiena allo spettatore, in modo del tutto innovativo.
Una sessualità più frivola e spensierata è proposta da Jean-Honoré Fragonard nei suoi dipinti, in un secolo – il XVIII – che si chiude con la scultura di Paolina Bonaparte di Canova, in cui la divinità ha un nome e un cognome.
L’Ottocento si apre invece con la coppia Maja desnuda e Maja vestida di Goya dove è esplicito l’intento provocatorio, mentre il Romanticismo si tinge di orientalismo con le odalische di Ingres. Goya e Tiziano sono i precedenti dell’Olympia di Manet che trasforma la dea in una prostituta, con tanto di servitù.
Con gli Impressionisti il nudo femminile guadagna una dimensione più naturale, mentre per le Avanguardie storiche diventerà il pretesto per esprimere il proprio stile attraverso il tema.
Il motivo della Venere nell’arte non si esaurisce certo qui (basti pensare alla Venere degli stracci di Pistoletto). Ma il motivo è all’origine anche di varianti prosaiche e commerciali, che riempiono réclame e social network. Chissà quante di queste sanno di avere un debito con Tiziano, e con tutte le Veneri che l’hanno preceduto.