Volti iconici: 5 ritratti memorabili ad opera di Raffaello

Volti iconici: 5 ritratti memorabili ad opera di Raffaello

ritratti di raffaello la fornarina
ritratti di raffaello la fornarina

Da sempre il ritratto suscita curiosità e interesse in chi lo guarda, che può attribuire un volto a un nome noto, oppure trovarsi al cospetto di figure sconosciute, affascinanti per il mistero che le avvolge. Chi lo commissiona, d’altra parte, è spinto dalla volontà di trasmettere la propria memoria ai posteri e il ritratto, a volte idealizzato, in altri casi veritiero, è la modalità più efficace. A seconda del punto di vista, l’effigie dipinta è dunque uno strumento per trascendere il presente: un’immersione nel passato o una proiezione nel futuro. 

Storicamente i ritratti erano appannaggio della nobiltà fino a quando, nel Rinascimento, si afferma una nuova classe sociale, quella mercantile, in grado di commissionare ai grandi artisti del tempo opere e ritratti. È così che questo genere si diffonde notevolmente.Di Raffaello, uno degli artisti più rinomati, ci rimangono oggi numerose testimonianze: 5 dei suoi ritratti più famosi ce ne danno prova.

1. Il Ritratto di Guidobaldo da Montefeltro e Elisabetta Gonzaga

ritratto di gudobaldo da montefeltro e elisabetta gonzaga raffaello sanzio
Ritratti di Guidobaldo da Montefeltro e Elisabetta Gonzaga, Raffaello

Iniziamo con un doppio ritratto en pendant, quello di Guidobaldo da Montefeltro e di Elisabetta Gonzaga, che si trova agli Uffizi. La critica non è sempre stata concorde nell’attribuire le due tavole a Raffaello, ma oggi la loro autenticità è ampiamente riconosciuta. La posa frontale delle figure risente ancora dell’influenza fiamminga e, anche per questo motivo, i dipinti vengono datati tra il 1503 e il 1504. Al 1504 risale infatti un’altra opera del Sanzio, il Ritratto di giovane con pomo (alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti) nel quale notiamo un’evoluzione nella disposizione del soggetto: non più frontale ma ruotato di tre quarti, un’impostazione che Raffaello manterrà da qui in avanti per quasi tutti i ritratti. 

Guidobaldo da Montefeltro è raffigurato in atteggiamento solenne, vestito di nero e oro, colori della casata, con una camicia scura, una casacca riccamente decorata e un copricapo a falde ampie. Alle sue spalle un ambiente chiuso sul quale si apre una finestra che incornicia un paesaggio collinare in lontananza. 
Anche Elisabetta Gonzaga condivide lo stesso impianto compositivo, con la differenza che lo spazio dietro di lei è totalmente aperto e illuminato da riverberi aranciati assenti nell’effigie del marito. Della Gonzaga colpisce in particolare l’abito sontuoso, anche in questo caso nero e oro, bordato da un’iscrizione che gli studiosi non sono ancora riusciti a decifrare
Altro enigma è costituito dal gioiello che orna la fronte della duchessa: un monile a forma di scorpione che contiene una pietra preziosa, probabilmente un diamante. Tra le varie interpretazioni vale la pena ricordarne due. Era pratica comune usare il veleno dello scorpione o l’animale stesso essiccato per preparazioni officinali: lo scorpione avrebbe dunque una funzione apotropaica. Una seconda lettura lo ha ricondotto invece al segno zodiacale (anche se la duchessa era nata a febbraio), spesso associato a prosperità e fecondità: un simbolo di buon auspicio per la coppia che non riusciva ad avere figli. 

Figlio di Federico da Montefeltro e Battista Sforza (ritratti pochi anni prima da Piero della Francesca nel dittico degli Uffizi), Guidobaldo sarà infatti il terzo e ultimo duca di Urbino della sua dinastia. In assenza di eredi diretti, titolo e ducato passeranno a Francesco Maria della Rovere, nipote di Giulio II e figlio adottivo della coppia. Si pensa che possa essere proprio lui il giovane con la mela raffigurato nel dipinto menzionato poco sopra.

2. Il doppio Ritratto dei coniugi Doni

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Ritratti di Agnolo e Maddalena Doni, Raffaello

La rigidità del dittico appena descritto viene superata da Raffaello solo pochi anni dopo con il doppio ritratto dei coniugi Doni (agli Uffizi), realizzato durante il soggiorno fiorentino. Un soggiorno fondamentale per l’evoluzione delle conoscenze e dello stile dell’artista. 
Non più frontali, Agnolo Doni e Maddalena Strozzi sono orientati di tre quarti; non più tagliati all’altezza del petto, mostrano le spalle, il busto e le mani. Una disposizione di per sé non inedita nella ritrattistica dell’epoca, ma che testimonia il debito di Raffaello nei confronti di Leonardo e della sua Gioconda. Della Monna Lisa l’artista di Urbino richiama – soprattutto nel ritratto di Maddalena Strozzi – la posa delle mani, l’occupazione dello spazio pittorico da parte della figura e il rapporto di quest’ultima con lo sfondo. E vi aggiunge una nota di realismo nuova, una franchezza dello sguardo e delle espressioni (appena percepibile nel ritratto della Gonzaga e qui invece totalmente manifesta), che gli varranno commesse importanti anche dopo. 

gioconda leonardo
Gioconda, Leonardo

Ma non corriamo troppo. Qui siamo ancora a Firenze e Raffaello è stato incaricato da Agnolo Doni, ricco mercante della città, di ritrarlo insieme alla consorte, la nobildonna Maddalena Strozzi. L’occasione potrebbe essere stata quella delle loro nozze o, si ipotizza, la nascita della loro primogenita (evento che potrebbe essere la ragione della commissione anche del Tondo Doni di Michelangelo).

tondo doni michelangelo
Tondo Doni, Michelangelo

I dipinti vengono dunque realizzati dal Sanzio tra il 1504 e il 1507 e sono tenuti insieme da una incorniciatura a sportello che permette di ammirare anche le scene rappresentate nei rispettivi verso realizzate da un allievo di Raffaello: Deucalione e Pirra nel verso della tavola della Strozzi e il Diluvio dei Dei in quello del Doni. Episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, messaggio di buon augurio per la coppia. 

deucalione e pirra raffaello sanzio
Deucalione e Pirra (sx), Il Diluvio (dx)

Allusive sono anche le pietre preziose incastonate nel pendente indossato dalla giovane Maddalena (appena quindicenne all’epoca delle sue nozze): virtù come la castità, la purezza e la fedeltà sono richiamate infatti dallo smeraldo, dal rubino, dallo zaffiro, dalla perla scaramazza e dal liocorno dorato che le sormonta. A questo animale mitologico e a Maddalena Strozzi è legato un altro ritratto di Raffaello: la Dama con l’Unicorno (1504-1505) alla Galleria Borghese di Roma. Fino al 1935, l’opera si presentava come una Santa Caterina con la ruota dentata (motivo iconografico tipico) ma il restauro di quell’anno ha rivelato l’unicorno presente sotto alla ruota, quindi rimossa. La famiglia Strozzi risiedeva a Firenze nel quartiere di Santa Maria Novella, noto come gonfalone dell’Unicorno: da questo, una parte della critica ha tratto la conclusione che la Dama con l’unicorno sarebbe proprio Maddalena fanciulla, idealizzata nelle sue fattezze (occhi azzurri, capelli biondi) per incarnare ancora meglio la personificazione della castità.

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Dama con l’Unicorno, Raffaello

3. Il Ritratto di Tommaso Inghirami detto Fedra

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Ritratto di Tommaso Inghirami, Raffaello

Affatto idealizzato sembra essere invece il Ritratto di Tommaso Inghirami, che si inserisce nella felice e prolifica stagione romana del Sanzio.
Nato a Volterra nel 1470, Inghirami era un umanista conosciuto e apprezzato tanto da essere incaricato come prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana tra il 1510 e il 1516, data della sua morte. È a questo periodo che risale la tavola di Raffaello, oggi a Palazzo Pitti, dove il porporato è ritratto su uno sfondo scuro (in origine un tendaggio verde) mentre, vestito di rosso e seduto al leggio, guarda verso l’alto in attesa dell’illuminazione. Una posa adottata fin dal Medioevo nelle miniature degli evangelisti impegnati nella redazione delle Sacre Scritture. 

Di Inghirami, soprannominato Fedra per la sua interpretazione teatrale dell’omonimo personaggio di Seneca, era noto anche il pronunciato strabismo. Un dettaglio che Raffaello non tralascia di rappresentare, pur celandolo parzialmente, adottando la posa di taglio. 
Una sincerità, quella del pittore, che traspare anche dall’incarnato, segnato da una barba non perfettamente rasata, dal volto pieno e dalle mani paffute: elementi di realismo che non sminuiscono la solennità della scena ma contribuiscono alla sua schietta veridicità.

4. La Velata e la Fornarina

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La Velata (sx); La Fornarina (dx), Raffaello

Si ritiene che La Velata (1514, Galleria Palatina, Firenze) e La Fornarina (1518-1520, Gallerie Nazionali Barberini Corsini, Roma) siano ritratti scaturiti da un legame d’amore tra il pittore e il soggetto. Secondo l’interpretazione inaugurata da Vasari, si tratterebbe infatti in entrambi i casi di Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, amante e musa di Raffaello. 
Sappiamo che l’Urbinate era tutt’altro che indifferente alle donne e, sempre secondo il biografo aretino, sarebbe addirittura morto prematuramente per ragioni legate ai suoi rapporti amorosi (oggi possiamo ipotizzare che si trattasse di una qualche malattia venerea). E sappiamo anche, dalla stessa fonte, che il cardinale Bibbiena insistette molto affinché il pittore prendesse in moglie una sua parente: cosa che non avvenne, ma che potrebbe giustificare i rapporti benevoli che Raffaello ebbe con Maria Dovizi, nipote del Bibbiena, forse con l’intento di farsi amica la nobilità romana. 

Al di là dei retroscena, ciò che oggi rimane sono due splendidi ritratti di giovani donne e senza una committenza nota. La Velata deve il suo nome al velo che le copre il capo e le spalle, anche se l’elemento più vistoso è sicuramente la manica dell’abito in primo piano, descritta magistralmente da Raffaello. Il volto leggermente in penombra della giovane, con lo sguardo diretto allo spettatore e il gesto della mano destra all’altezza del cuore, trasmettono una grazia e un riserbo senza pari.  Una forte carica erotica emana invece dalla Fornarina, anche per via della sua parziale nudità. Anch’ella porta una mano al petto, mentre l’altra copre il pube, in linea con il modello della Venere pudica della scultura classica, richiamato qualche anno dopo anche dalla Venere di Tiziano. E proprio di una Venere si tratterebbe, come confermano anche il bracciale con la firma dell’autore (“Raphael Urbinas”) segno di vincolo amoroso e, alle spalle della donna, il cespuglio di mirto – sacro alla dea – e il ramo di melo cotogno, emblema di fertilità.

5. Il Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi

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Il Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, Raffaello

Nobili, mercanti, intellettuali e uomini di chiesa, sono molte le committenze che Raffaello riceve una volta giunto a Roma. Tra le più importanti, va ricordata quella del pontefice Leone X, per il quale realizza uno dei ritratti più acclamati di tutta la sua produzione
Eseguito nel 1518 per essere spedito in vece del papa in occasione delle nozze tra suo nipote Lorenzo de’ Medici duca di Urbino e Madeleine de la Tour d’Auvergne, nipote di Francesco I re di Francia, il dipinto ritrae il papa Medici e due cardinali: Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII, e Luigi de’ Rossi.
Per molto tempo si è creduto che queste due figure fossero state aggiunte da altri successivamente, ma il recente restauro ha confermato l’autenticità di tutta l’opera.

Un’opera dominata dal pontefice che, con la sua figura corpulenta e riccamente abbigliata, occupa il centro della composizione. Seduto al tavolo di lettura, volge lo sguardo altrove mentre con una mano sorregge una lente ornata d’oro (usata per correggere la miopia) e avvicina l’altra al libro miniato aperto davanti a lui. Il volume è stato identificato come la preziosa Bibbia conservata al Kupferstichkabinett di Berlino, un codice della metà del XIV secolo decorato da Cristoforo Orimina, uno dei più famosi miniatori del tempo. 
Come per Inghirami, anche in questo caso Raffaello non si lascia intimidire dall’autorità del committente e lo raffigura con tutti i suoi difetti, comprese le fattezze sgraziate. 

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Secondo Vasari, il ritratto suscitò un tale clamore che Alessandro de’ Medici, duca di Firenze, ne commissionò in segreto uno analogo ad Andrea del Sarto perché voleva donarlo a Federico II duca di Mantova. La copia fu quindi inviata a Mantova, spacciandola per un autentico Raffaello.
Intenzionato a esporlo, Federico II convoca Andrea del Sarto e Giulio Romano. Al cospetto della copia, Andrea del Sarto rivela il misfatto, ma l’altro – a sorpresa – lo smentisce. Giulio Romano infatti aveva già visto il dipinto mesi prima e ne aveva dichiarata l’autenticità al duca. Per non perdere la credibilità agli occhi del signore di Mantova, Giulio Romano nega le parole di Andrea del Sarto e lo accusa di mentire, affermando di averci lavorato egli stesso insieme a Raffaello: “Come non è [vero]? Non lo so io che vi riconosco i colpi che vi lavorai su?”, una bugia che servì a salvargli la faccia.    
Un qui pro quo degno di una commedia degli equivoci e che dimostra quanto i capolavori di Raffaello siano da sempre capaci di generare sentimenti e comportamenti più o meno nobili, ma tutti prova della sua grandezza.

I ritratti, si sa, raccontano storie e rivelano –  tramite un’espressione o il dettaglio di un abito – la vita, il carattere e le ambizioni dei loro protagonisti, innescando un gioco di sguardi ed emozioni che va ben oltre la superficie pittorica.

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