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L’arte del commesso fiorentino: origine, tecnica ed esempi della lavorazione delle pietre dure

L’arte del commesso fiorentino: origine, tecnica ed esempi della lavorazione delle pietre dure

commesso fiorentino antonio cioci
commesso fiorentino antonio cioci

L’alto artigianato toscano comprende, tra le sue lavorazioni uniche, anche quella delle pietre dure con la realizzazione di opere in commesso o mosaico fiorentino. Una tradizione che si afferma nel Cinquecento e della quale ci rimangono ancora oggi esempi incantevoli, di insuperata maestria e originalità.
Ma come nasce e come evolve quest’arte? E con quali tecniche? Vediamolo insieme. 

Il commesso fiorentino: cenni storici

La lavorazione delle pietre dure risale all’antichità greca e romana quando gemme e materiali lapidei venivano intagliati per realizzare preziosi cammei, oppure intarsiati per decorare pareti e pavimenti.
Il rivestimento architettonico con mosaici di lastre marmoree policrome “commesse” (ovvero profilate e accostate a formare un disegno geometrico), prende il nome di opus sectile e perdura per tutta l’età cristiana.
Tuttavia con il Medioevo se ne perdono quasi del tutto le tracce, almeno fino al Rinascimento. Nel Cinquecento, sotto l’impulso della generale riscoperta antiquaria, viene recuperata anche la tradizione del commesso, apprezzata soprattutto dalla corte pontificia. 

Capitale del gusto e catalizzatrice dei più importanti talenti artistici del XVI secolo, Roma ha il primato nella valorizzazione del mosaico lapideo. Eppure è Firenze a spiccare nel panorama italiano ed europeo per la lavorazione delle pietre pregiate. Già Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze, vi aveva dedicato un laboratorio all’interno della nuova residenza di Palazzo Vecchio. Francesco I prosegue l’opera paterna sia come collezionista che come mecenate, chiamando in città alcuni degli artigiani più celebri del tempo.
Ma è con Ferdinando I (secondogenito di Cosimo succeduto al fratello), che il commesso fiorentino si afferma come eccellenza assoluta. Cardinale a Roma, Ferdinando ha infatti modo di “toccare con mano” le arti capitoline, compresa quelle delle pietre dure, e divenuto granduca di Toscana, porta a Firenze esempi e autori illustri. 
Da questo momento in poi, il mosaico fiorentino segue una storia, fulgida, a se stante. 

mosaico fiorentino
Tavolo in commesso fiorentino, Manifattura granducale

L’Opificio delle Pietre Dure: il primo laboratorio istituzionale 

A Firenze, nel 1588, Ferdinando I de’ Medici fonda la prima Manifattura “di Stato” (l’odierno Opificio delle Pietre Dure), subito impegnata nella realizzazione delle decorazioni architettoniche della Cappella dei Principi della basilica di San Lorenzo a Firenze: un mausoleo di famiglia pensato per essere completamente rivestito di intarsi lapidei. Il progetto era talmente sfarzoso da alimentare voci e dicerie: secondo alcuni, il Medici avrebbe voluto addirittura trasportare qui il Santo Sepolcro da Gerusalemme.

Attiva per oltre tre secoli, la Manifattura segue le vicende politiche e familiari dei Medici e, successivamente, dei Lorena, aprendosi anche (per alcuni anni del Settecento) a committenti d’élite estranei alla famiglia granducale.
Un lungo periodo che si conclude con la musealizzazione della collezione dell’Opificio delle Pietre Dure nel 1882 e con la sua trasformazione, per volontà del lungimirante Edoardo Marchionni (primo direttore dell’Opificio), da laboratorio artistico a centro di restauro, tuttora attivo e fondamentale per la conservazione di opere provenienti da tutto il mondo. 

Caratteristiche ed esempi illustri del mosaico fiorentino

Una produzione così prolungata non può che subire i mutamenti del gusto e accordarsi agli stili propri di ogni epoca. Abbiamo selezionato gli esempi che meglio descrivono l’evoluzione del mosaico fiorentino dando prova della sua straordinaria vivacità e varietà, prima di cessare del tutto alla fine del XIX secolo.

I motivi geometrici e la decorazione arabeggiante di Giorgio Vasari

Nelle sue fasi iniziali, il commesso fiorentino ricalca le composizioni romane, proponendo soprattutto figure geometriche e amorfe. 
Attorno alla metà del Cinquecento, insieme al rivestimento architettonico, si impone un nuovo tipo di arredo: i piani di tavolo intarsiati. Estremamente lussuosi, erano spesso creati riutilizzando marmi e pietre antiche, abbondanti nella Roma del tempo e ricercati dai collezionisti di tutta Europa. 
In questo periodo, Vasari – artista, storico e architetto di fiducia dei Medici – conduce molti viaggi a Roma proprio con l’intento di rifornire Cosimo I di pietre pregiate e di informarlo sul loro impiego.
Proprio agli stessi anni risale il suo primo progetto per un tavolo commesso, destinato al banchiere fiorentino Bindo Altoviti – lo stesso ritratto da Raffaello (1515 ca. Washington, National Gallery of Art) – e oggi identificabile, con ogni probabilità, con quello conservato alla Banca di Roma. 

Realizzato dalle sapienti mani di Bernardino di Porfirio, intagliatore vicino alla corte medicea, “l’ottangolo di diaspri commessi nell’ebano e avorio”, come lo descrisse Vasari stesso, rappresenta un unicum nella decorazione litica. È infatti l’unico esempio, a noi noto, di moresca (motivo geometrico arabeggiante), più comuni erano invece le sequenze di cartigli e tondi di derivazione classica, a conferma dell’interesse degli uomini cinquecenteschi per l’arte orientale. L’articolato intreccio che si irradia dal centro verso i bordi è squisitamente disegnato dall’avorio che traccia linee e forme sul fondo di legno scuro, alternato agli intarsi di diaspri di Sicilia. 

ultima cena ludovico cardi
Ultima Cena, Ludovico Cardi

La svolta pittorica e l’inizio di una fiorente tradizione

Oltre ad aver fondato la manifattura toscana (detta Galleria dei Lavori), Ferdinando I ha inoltre il merito di aver rinnovato il genere del commesso fiorentino imprimendo quel carattere pittorico, mai più abbandonato, che lo renderà celebre.
Da questo momento in poi, agli ornamenti astratti, si affiancano figure zoomorfe, vegetali e antropomorfe, che ben si accordano alla spinta illusionistica del Manierismo e alla ricerca di massima espressività dell’arte promossa dalla Controriforma.
Prova della perizia raggiunta dai maestri artigiani in quest’epoca sono le scene raffigurate nelle formelle con Paesaggio toscano (Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure), realizzate nel 1608 su disegno del pittore Bernardino Poccetti per l’altare della Cappella dei Principi; e nel pannello con l’Ultima Cena su disegno di Ludovico Cardi detto il Cigoli (1604-1606, modificato nel 1785, oggi alla Cappella Palatina di Firenze).
Minuzia e qualità grafiche eccellenti sono enfatizzate qui dalle cromie delle pietre: agate, lapislazzuli, diaspri, quarzo ametistino, calcedonio orientale sono scelte e posizionate sapientemente per comporre la scena. Una selezione che veniva affidata agli stessi pittori che collaboravano con la Manifattura fiorentina, incaricati di “trovar le macchie delle pietre dure” più adatte, per dirla con le parole dello storico seicentesco Filippo Baldinucci. Ancora alla fine del Settecento i due ruoli coincidevano e chi dipingeva i modelli per i commessi aveva anche il ruolo di “sceglitore di pietre”. 

commesso fiorentino paesaggio toscano bernanrdino poccetti
Paesaggio toscano, Bernanrdino Poccetti

Di poco più tardi e altrettanto magnifici, sono invece i due mosaici fiorentini a tema floreale custoditi oggi agli Uffizi: la Tavola dei fiori “sparti” (1614-1621, su disegno di Jacopo Ligozzi) e il Tavolo della Tribuna, iniziato per celebrare le nozze tra Ferdinando II de’ Medici e Vittoria delle Rovere e terminato dopo sedici anni di lavoro (1633-1649). In entrambi i casi, il fondo scuro contribuisce all’esaltazione delle vivaci tonalità lapidee che compongono il suggestivo intrico di foglie, fiori, grottesche, vasi e animali.

tavola dei fiori sparti jacopo ligozzi
Tavola dei fiori “sparti”, Jacopo Ligozzi

Una nuova svolta: allegorie e natura morta

Nel 1748, l’orafo francese Louis Siriès viene nominato direttore della Manifattura e impone un rinnovamento del repertorio artistico, ormai da un secolo focalizzato su fiori e grottesche, promuovendo scene di genere, paesaggi e soggetti allegorici. 
Per farlo, si rivolge al pittore fiorentino Giuseppe Zocchi, che intraprende con la manifattura una proficua collaborazione. Le opere prodotte sui suoi modelli dovevano rifornire il palazzo viennese di Francesco Stefano di Lorena, nuovo signore di Firenze, e rispecchiano la nuova linea e il gusto classicistico di Siriès.
Un gusto che emerge chiaramente ne La Pittura, tratta dalla serie dedicata all’allegoria delle quattro Arti (1780, Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure).
È interessante notare la distanza che separa la bozza dello Zocchi dal risultato finale. Se nella prima assistiamo a una scena tipica della vita di uno studio d’artista, con barattoli, manichini appesi, cavalletti accatastati, nulla di tutto questo appare invece nella versione a commesso, alla quale il direttore aveva impresso la sua visione decisamente più solenne e celebrativa. Più ordinato del disegno dello Zocchi, il mosaico non delude e dimostra l’abilità del pittore e degli esecutori, sintetizzando brillantemente i traguardi raggiunti dall’arte lapidea del XVIII secolo. 

commesso fiorentino la pittura giuseppe zocchi
La Pittura, Giuseppe Zocchi

A riprova della versatilità di questa tecnica, sempre pronta a rinnovarsi e aggiornarsi, citiamo un ultimo esempio, che spicca per dettaglio e raffinatezza: il Piano di tavolo in porfido, con composizione di vasi antichi, eseguito dalla Manifattura nel 1784 su modello di Antonio Cioci (alla Galleria Palatina di Firenze). Preso il posto di Zocchi, Cioci interpreta in modo magistrale la nuova direzione artistica di Luigi Siriès (nipote di Louis e figlio di Cosimo Siriès, anche lui direttore della Manifattura) che richiede un passaggio dalle scene ambientate, alla natura morta di gusto neoclassico
Una composizione rigorosa, esaltata dalla purezza dei materiali tra i quali spicca il porfido rosso antico del fondo – sempre presente nella produzione del commesso fiorentino e particolarmente apprezzato nel periodo Neoclassico

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La tecnica del commesso fiorentino

Ma come veniva prodotto il commesso fiorentino? Il primo passaggio era quello del modello, ovvero del disegno – olio su tela o acquerello su carta – realizzato da un pittore in scala 1:1.
Il disegno era quindi affidato al maestro lapicida e, se si trattava di un’opera molto grande, suddiviso tra più lavoranti, così da velocizzare i tempi di esecuzione, inevitabilmente piuttosto lunghi. 
Dal disegno, il maestro ricavava un lucido con la divisione del modello pittorico in tante “mascherine” di carta, le successive sezioni lapidee. Questa operazione era molto delicata perché il numero e la sagoma delle sezioni condizionavano direttamente il risultato finale. 
Altrettanto importante e laboriosa era la fase successiva: quella della scelta delle pietre e delle “facce” più adatte, per cromie e sfumature, a occupare la porzione indicata. 

Una volta selezionate, le “fette” di pietra (tagliate dello spessore di 2-4 mm) dovevano essere sagomate nella forma data da ciascuna sezione. Per questo, si applicava sopra a ognuna la relativa mascherina di carta, che doveva servire da guida per il taglio. 
Gli strumenti impiegati in questo stadio erano – allora come oggi – molto semplici, quasi rudimentali: un banco di lavoro ligneo dotato di una morsa e di una sega composta da un ramoscello di castagno incurvato e da un filo di ferro dolce. Una volta fermata la lastra di pietra in verticale all’interno della morsa, l’artigiano procedeva a tagliarla lentamente secondo la forma prestabilita, alternando per ogni movimento il passaggio di una polvere abrasiva (smeriglio) con una spatola. L’azione combinata di filo e smeriglio consentiva il taglio della lastra, che prevedeva tempi più o meno lunghi a seconda della durezza del materiale.
Lo stesso procedimento si seguiva per il fondo (se previsto), semplicemente realizzando un primo foro che permetteva il passaggio del filo di ferro e l’avvio del taglio. 
Per ottenere un risultato impeccabile, era necessario che i profili di ogni sezione e del fondo coincidessero alla perfezione: solo così era possibile avvicinarli l’uno all’altro senza solchi visibili, come un puzzle. Quando tutto era sistemato, si procedeva rovesciando la composizione e incollando i pezzi tra loro. 
Le ultime fasi di levigatura e lucidatura donavano all’opera il suo aspetto rifinito e brillante. 

Una tecnica laboriosa e affascinante, che stupisce per la semplicità dei suoi strumenti, ma che – come abbiamo visto – produce risultati di incantevole finezza. Se ti abbiamo incuriosito e hai voglia di vedere da vicino il processo del commesso fiorentino, non ti resta che organizzare una visita al Museo dell’Opificio delle Pietre Dure e il suo laboratorio, dove inoltre potrai osservare alcuni degli esemplari più antichi e rinomati di questa mirabile tradizione.

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