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Artemisia Gentileschi

Pittrice dalla intensa carica espressiva, Artemisia Gentileschi si è fatta strada in un mondo dominato dagli uomini grazie al suo innegabile talento, alla forza delle sue opere e del suo carattere. Cresciuta in una famiglia di artisti, è diventata il simbolo della pittura femminile seicentesca.
L’infanzia, la formazione e il rapporto difficile con il padre
Artemisia Gentileschi nasce a Roma nel 1593 in una famiglia profondamente legata al mondo dell’arte. Suo padre, Orazio Lomi Gentileschi, celebre pittore e amico intimo di Caravaggio, proviene da una stirpe di artisti: il nonno di Artemisia era un orafo fiorentino attivo a Pisa e due degli zii paterni si dedicavano alla pittura. La madre, Prudenzia di Ottaviano Montoni, appartiene invece a una prestigiosa famiglia romana legata alla curia papale. Una vicinanza che permette ad Orazio di accedere a un mondo di ricchi committenti, profondamente intrecciato con la Chiesa e l’élite intellettuale romana, che sostiene la sua carriera artistica.
Primogenita, unica femmina di sei, Artemisia mostra sin da giovanissima una forte inclinazione per il disegno e la pittura. Nonostante la chiusura e il maschilismo della sua epoca, Orazio decide di incoraggiare il talento della figlia e si impegna a insegnarle il mestiere formandola in casa, tra cure amorevoli e attenzioni costanti. Il rapporto fra padre e figlia è però tutt’altro che semplice e i due litigano spesso. Non passerà molto prima che si renda conto di avere a che fare non una semplice pittrice, ma una vera e propria artista.
E proprio come ogni artista che si rispetti Artemisia sviluppa precocemente una visione tutta sua: non si limita a emulare lo stile del padre, ma lo fa proprio filtrandolo e integrandolo a suo modo. A circa dodici anni, nel 1605, inizia a lavorare ufficialmente nella bottega di famiglia, probabilmente a seguito della morte della madre. Assieme al padre, apprezzatissimo dai mecenati romani, fa la conoscenza di molti degli artisti più in voga del periodo, tra i quali Caravaggio, fondamentale per lo sviluppo del suo stile successivo.
Nonostante i numerosi diverbi, nelle sue lettere Orazio elogia spesso la figlia e ne parla con orgoglio. Da queste testimonianze sappiamo, ad esempio, che già a quindici anni Artemisia è molto apprezzata nell’ambiente intellettuale romano.
In questo periodo di formazione, la giovane collabora con il padre aiutandolo a completare diverse commissioni mentre lavora anche a dipinti autonomi, come Susanna e i vecchioni, realizzato nel 1610 e oggi conservato nella Collezione Graf von Schönborn a Pommersfelden, in Germania. Un’opera che ne attesta l’ormai innegabile bravura e rivela la sua capacità di combinare stile personale con le influenze paterne e dei grandi artisti suoi contemporanei, come appunto il Merisi.
Il suo talento è talmente evidente che in una lettera del 1612 indirizzata alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena, Orazio afferma che “forse i principali Mastri di questa professione non arrivano al suo sapere”. Artemisia ha solo diciannove anni e le sue capacità sembrano non avere limiti, nonostante la dolorosa situazione dalla quale sta cercando di uscire.
La violenza subita e il coraggio della verità
Intorno al 1611 si consuma l’episodio più drammatico e tristemente noto della vita di Artemisia. Agostino Tassi, pittore al quale il padre l’aveva da poco affidata come apprendista, la stupra nella casa dei Gentileschi in via Croce a Roma, mentre Orazio è lontano per lavoro, e continua per mesi ad abusare psicologicamente e fisicamente di lei. Le ripetute violenze sono rese possibili anche a causa della complicità della vicina – e presunta amica di famiglia – Tuzia e di un funzionario papale, Cosimo Quorli, in seguito accusato di averla molestata a sua volta e di aver rubato delle opere dalla bottega di famiglia.
La ragazza viene tenuta a lungo in ostaggio dal Tassi con la falsa promessa di un matrimonio riparatore, pratica usuale per l’epoca.
Quando Orazio, l’anno successivo, decide di sporgere denuncia contro il collega, la vicenda prende l’aspetto di un vero e proprio scandalo che fa eco in tutta Roma. Artemisia, nonostante il profondo trauma e la reputazione rovinata, riesce a trovare la forza per lottare e decide volontariamente di sottoporsi a umilianti visite ginecologiche pubbliche e a terribili interrogatori sotto tortura pur di riuscire a far condannare il suo assalitore. Durante uno di questi colloqui, le viene praticata persino la tortura dei sibilli che prevedeva che le dita delle mani fossero legate con delle cordicelle e, tramite un meccansimo collegato, strette sempre più. Un trattamento che, oltre al tremendo dolore, poteva provocare danni permanenti alle falangi e mettere così a repentaglio il suo futuro di pittrice.
Artemisia però resiste e, nel 1612, Agostino Tassi viene finalmente condannato ed esiliato dalla città papale. Lo stesso anno, la Gentileschi sposa il fiorentino Pierantonio Stiattesi e nel 1614 si trasferisce con lui a Firenze. Insieme avranno quattro figli, Giovanni Battista, Cristofano, Prudenzia e Lisabella, ma il loro non sarà un matrimonio particolarmente felice.
Gli anni fiorentini e l’affermazione artistica
È la capitale toscana a segnare la svolta decisiva nella carriera di Artemisia.
Chiusa la terribile parentesi dello stupro, ricomincia a dedicarsi con intensità alla pittura. A Firenze viene accolta calorosamente dalla corte del giovane granduca Cosimo II de’ Medici e inizia a frequentare gli ambienti più colti della città. Durante questi anni stringe forti legami con numerosi intellettuali, come lo scrittore Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote del più noto e omonimo artista, che nel 1615 le commissiona l’Allegoria dell’Inclinazione per Casa Buonarroti; e Galileo Galilei, scienziato rivoluzionario con il quale sviluppa un’amicizia particolarmente forte.
A differenza di Roma, Firenze è una città dominata dalle donne: Cosimo II è giovane e indebolito dalla tubercolosi e di fatto la corte è governata – e agitata – dalle due religiosissime granduchesse: la madre Cristina di Lorena e la giovane moglie Maria Maddalena d’Asburgo. Le due sembrano non andare molto d’accordo e si contendono le attenzioni dell’inesperto sovrano, litigandosi il potere e le brame dei cortigiani.
Il rapporto di Artemisia con il granduca, così come con la madre e la consorte, è ben documentato ma, purtroppo, la maggior parte delle opere che si pensa possano risalire a questo periodo sono di difficile datazione. Sicuramente realizza per loro le tele attualmente esposte a Firenze, ma poco sappiamo di quelle che, nei secoli successivi, hanno trovato nuove collocazioni in Italia e in Europa.
Certo è che intorno al 1615 le viene commissionata la Maddalena Penitente, o Conversione della Maddalena, oggi conservata nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Realizzata probabilmente per la giovane granduchessa, omonima della santa, rivela la lezione luministica del Caravaggio introducendo anche alcune novità originali. Qui Maddalena è avvolta da un ricchissimo abito in seta gialla: un dettaglio insolito rispetto alle tipiche rappresentazioni dell’epoca, che la immortalano vestita di stracci. I capelli scomposti, la mano al petto, il viso rigato di lacrime e il piede nudo, così come lo sfondo in penombra, accentuano il profondo tormento interiore e segnalano l’approssimarsi di una nuova vita di rinunce.
Nel 1616 Artemisia raggiunge un altro traguardo importante, poiché è la prima donna ad essere ammessa come membro dell’Accademia del Disegno di Firenze, la prestigiosa istituzione voluta da Michelangelo e ufficialmente fondata dal Vasari il secolo prima.
Ma è verso la fine della sua permanenza in città che realizza le sue opere più celebri, quelle che più di tutte mostrano la forza del suo carattere, e forse ancora l’ombra del suo passato: sono i dipinti che hanno come soggetto la Giuditta dell’Antico Testamento, un’eroina che si ribella alla volontà del suo vessatore.
Giuditta con la sua ancella (1618-1619), oggi alla Galleria Palatina, e Giuditta che decapita Oloferne (1620), esposto agli Uffizi, raffigurano due momenti diversi dello stesso episodio biblico: l’uccisione del generale assiro Oloferne per mano di Giuditta, vedova ebrea della città assediata di Betulia che, con l’inganno, seduce e sconfigge il nemico.
Come molte sue opere mature, lo stile richiama molto da vicino quello del Merisi, con colori brillanti su sfondi scuri che esaltano le figure e la scena. Ciò che colpisce è la forza delle sue donne: indomite, fiere e sicure contro uomini malvagi e ingiusti. Artemisia non ci risparmia inoltre dettagli crudi e realistici, come lo zampillo di sangue che sgorga copioso dalla testa decollata di Oloferne, imbrattando le lenzuola e il décolleté della sua indomita assassina.
I debiti, i viaggi e la maturità stilistica
Nel 1621, la lenta perdita di consensi presso la corte medicea e la montagna di debiti che il marito aveva accumulato, costringono Artemisia ad abbandonare Firenze per non farvi più ritorno. Per anni il suo lavoro di pittrice le aveva permesso di sostenere il desiderio di lusso del consorte, ma i vizi di Pierantonio diventano forse troppo onerosi anche per un’artista di successo come lei. Parte allora per Genova dove sta lavorando il padre e dove conosce Van Dyck e Rubens, figure importanti per la sua ulteriore evoluzione stilistica.
L’anno successivo rientra a Roma e vi resta per qualche anno portando avanti il suo lavoro d’artista. Di questo periodo è una nuova e splendida versione della Giuditta con la sua ancella, oggi a Detroit. Una tela che dimostra quanto la tecnica di Artemisia si sia sviluppata, fino a creare una scena intrigante e meravigliosa, nella quale le due donne – illuminate solo da una candela – si muovono in perfetta sintonia. Tale mutamento è forse dovuto al contatto con Gherardo delle Notti, artista fiammingo noto allora a Roma per le sue scene notturne.
In cerca di nuove commissioni, nel 1627 Artemisia è costretta a trasferirsi a Venezia dove si fermerà tre anni, per poi stabilirsi a Napoli. La capitale partenopea, la seconda metropoli in Europa per popolazione, è all’apice del suo splendore e vanta una fervida attività culturale. Qui la Gentileschi si cimenta prevalentemente in opere a tema sacro dal carattere meno ribelle e più istituzionale, come il San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli o l’Adorazione dei Magi per la Cattedrale di Pozzuoli, entrambi realizzati tra il 1636 e il 1637.
Da Napoli la sua fama si espande oltre i confini italiani, come testimoniano alcune opere realizzate per il re di Spagna Filippo IV.
Ma gli spostamenti non sono ancora terminati e nel 1638 raggiunge il padre a Londra, presso la corte di Carlo I, con l’obiettivo di ottenere i fondi da destinare alla dote della figlia Prudenzia. Il viaggio però risulta infruttuoso e all’alba della guerra civile inglese Artemisia è di nuovo a Napoli, dove resterà fino alla morte.
Sulla data della sua scomparsa non ci sono notizie certe, ma molti la collocano intorno al 1656 durante la terribile epidemia di peste che decimò la città e la privò dei suoi più grandi artisti e intellettuali: Artemisia era senza dubbio una di loro.
Foto di copertina: Giuditta con la sua ancella, 1612-1613, Artemisia Gentileschi, Palazzo Pitti, Firenze
Roma, 1593 – Napoli, 1656
Pittura
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In origine residenza del ricco banchiere fiorentino Luca Pitti, questo magnifico palazzo viene acquistato nel 1550 dal Granduca Cosimo I de’ Medici il quale vi stabilisce la sua corte assieme alla moglie Eleonora di Toledo. Dopo due secoli, dal 1737, la reggia sarà la dimora della famiglia Lorena, succeduta ai Medici nel Granducato, ed in seguito dei Savoia durante i cinque anni in cui Firenze sarà capitale d’Italia.
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2 ore